(...) «
Ma chi recede dalla propria Religione e muore da miscredente, ebbene… costoro van perse le opere loro nella bassa vita e nell’Oltre: sono questi i compagni del Fuoco, e vi staranno in perpetuo.»
Dice Ismâ‘îl Haqqî: “Motivo dell’apostasia è l’assenza di Certezza: come potrebbero altrimenti il demonio e l’idolatria volteggiare attorno a colui che veramente riconduce tutto ad Unità, se questi è liberato da ogni mediazione e da ogni limitazione, ed è giunto al Signore adorato? L’opera buona ed integra (العمل الصالح al-‘amalu s-sâlih) è quella con la quale si vuole il Volto di Allah, che ogni altra opera è corrotta, e non è assolutamente di nessuna utilità per chi la compie (…). Ora, la più bella delle opere belle è la Realizzazione dell’Unità (توحيد tawhîd), essendo il fondamento di ogni altra. Per questo essa non si può pesare. Il Profeta
dice: ‘Ogni opera bella che tu compi vien soppesata il Giorno della Resurrezione, salvo l’Attestazione di Fede لا اله الا الله lâ ilâha illâ Allah (Non v’è divinità all’infuori di Allah): infatti se essa fosse messa sulla Bilancia di chi la pronuncia in piena sincerità, e sull’altro piatto fossero messi i Cieli e le sette terre con ciò che contengono, ecco che lâ ilâha illâ Allah peserebbe di più.’ Tutte le opere buone ed integre accrescono la Luce della Fede: tuo compito sarà dunque di obbedire, di compiere le opere belle e di raggiungere le Scienze divine. Infatti la Conoscenza per mezzo di Allah (العلم بالله al-‘ilmu bi-llah) è la più eccellente delle attività. Per questo quando chiesero all’Inviato di Allah
quale fosse l’opera più eccellente, egli rispose ‘La Conoscenza per mezzo di Allah’. Essi allora osservarono: ‘Noi ti chiediamo dell’opera e tu ci rispondi sulla Conoscenza!’ Lui allora disse: ‘Invero poca opera unita alla Conoscenza è di giovamento, mentre molta opera unita all’ignoranza non giova.’ Ciò non si ottiene se non purificando l’interiore per mezzo della pulitura rappresentata dall’Unità e dai vari tipi di Ricordo (ذكر dhikr) di Allah: e non comprendono a fondo se non quanti han Conoscenza.
Nel Mathnawî è detto:
‘[-Dì infine: com’è il grido del demone?-
-(È:) Voglio ricchezza! Voglio onore e gran rispetto!-
Impedisci a queste grida di entrare dentro di te,
di modo che ti possano essere svelati
dei segreti divini!] Pratica il Ricordo di Dio,
brucia le grida dei demoni, e chiudi i tuoi occhi
di narciso a questo avvoltoio! [Conosci la falsa alba, distinguendola dalla vera, e distingui il colore
del vino da quello della coppa,
che dagli occhi che vedono sette colori
la pazienza e l’attesa possono far apparire
un occhio col quale vedrai altri colori
oltre a questi, e vedrai perle
al posto di sassi.]’
Si riporta da Al-Giunayd: ‘Vidi in sogno il demonio. Era mezzo nudo, e gli dissi: -Ma non ti vergogni davanti agli uomini (ناس nâs)?- Lui rispose: -Se questi fossero davvero uomini, io non giocherei con loro allo stesso modo in cui un bambino gioca con una palla!- Chiesi: -E allora chi sono gli uomini?- -Sono come la gente (قوم qawm) che sta nella moschea di Ash-Shûnîzî: mi han fatto deperire nel corpo e mi hanno bruciato il cuore! Tutte le volte che mi occupo di loro, essi alludono ad Allah l’Altissimo, e ci manca poco che brucio a causa della Luce del loro dhikr!- Quando mi risvegliai, andai la notte alla moschea di Ash-Shûnîzî, [alla periferia di Bagdad]. Una volta entrato, vi trovai tre uomini seduti con la testa coperta dalla loro veste variegata; quando si furono accorti di me, uno di loro fece uscire la testa e mi disse: -Abû l-Qâsim! Tu tutte le volte che qualcuno dice qualcosa la approvi e la ascolti! Guarda piuttosto lo sforzo e l’obbedienza ad Allah di questi, e come i loro Segreti son purificati da tutto ciò che è altro da Lui, l’Altissimo! Sono loro che seguono davvero l’Islam!-’ ” È stato detto “a proposito delle parole del Profeta
‘L’Islam è iniziato come uno straniero (غريب garîb), e tornerà come uno straniero’: ‘Qui per Islam si intende l’Islam veritiero, e chi lo segue non apostaterà mai e poi mai! Per straniero si deve poi intendere chi non ha nessuno amico che lo conforti.’
Nel Mathnawî è detto:
‘C’era un infedele, al tempo di Abû Yazîd [Al-Bistâmî],
al quale un buon musulmano parlò dicendo: Come sarebbe se tu
professassi l’Islam, in modo da ottenere cento salvezze e dignità?
Lui ripose: O murîd, se questa Fede è come quella di Abû Yazîd,
Sheykh del mondo intero, [ebbene io non riesco a sopportare un tale
ardore, ben più grande di quel che potrebbero essere gli sforzi della
mia anima; pure, se anche non riesco a credere alla Fede e alla
Religione, nella sua Fede credo senza alcun dubbio! Riesco a concepire
che essa sia più elevata di ogni altra: è certamente delicata e sottile,
e accompagnata da splendore e magnificenza.]
Nel segreto son dunque credente nella sua Fede, benché mi sia stato
posto un robusto sigillo sulla bocca. E ancora: se la Fede è invece la
vostra fede, non ho alcuna inclinazione, né desiderio per essa.
Infatti, anche se uno avesse cento inclinazioni per la Fede
esse diverrebbero debolissime solo a guardarvi, perché vedrebbe
un nome senza significato, come chiamare il deserto salvezza.
[Così, quando guarda alla vostra fede,
il suo desiderio di professare la Fede resta congelato.]’ ”
Ibn ‘Arabî dedica un intero capitolo delle Futûhât (4,495, 131-2) alla “Conoscenza dello stato di un Polo la cui dimora è [rappresentata dalle parole] «chi di voi recede dalla propria Religione e muore da miscredente (كافر kâfir)».” Nella prima parte di tale capitolo, il sommo Maestro indica velocemente ed in via sintetica ed allusiva i punti fondamentali della dottrina che considera i vari aspetti della ‘fuoriuscita dalla Religione’ (o ‘da una Religione’), ed in che senso una tale fuoriuscita possa legittimamente essere intesa volta a volta 1) come vera e propria ‘apostasia’; 2) come ‘conversione’ in qualche modo illegittima ed inopportuna; 3) come passaggio ad una forma tradizionale più completa sulla base di una profonda comprensione della propria Tradizione. Nella poesia introduttiva, Ibn ‘Arabî dice, richiamando inizialmente le parole coraniche appena citate:
“«Chi di voi recede dalla propria Religione (دين dîn), e muore»,
sta rinnegando (kâfir) tutta la Religione;
essa infatti è una realtà unica e assoluta (احدي العين ahadiyyu l-‘ayn),
e non può avere chi le si opponga venendo da un luogo diverso dal suo.
La Legge che la riguarda consiste infatti nel portare il Tutto
(الكل al-kull): questa la Norma che viene, a suo proposito,
da Colui che l’ha stabilita.”
Questa poesia appare di grande importanza, in quanto stabilisce che la natura del dîn (‘Religione’) è universale ed omnicomprensiva: si tratta della Tradizione divina primordiale, universale ed unica, o diciamo della «Religione presso Allah» (III, 19), che propriamente non può essere contraddetta in quanto, comprendendo essa ‘il Tutto’, non esiste un ‘luogo’ che non le sia proprio; essa può essere solo ‘rinnegata’, e cioè rifiutata e combattuta da un punto di vista abusivo e restrittivo, che discende necessariamente dal piano dell’universale a quello dell’individuale (come è il caso delle pseudo-dottrine moderne). La ‘fuoriuscita’ da una tale Religione è dunque assolutamente ‘apostasia’, annuncio di disgrazia e pura perdita intellettuale. Di seguito, il sommo Maestro considera le parole coraniche «Per ognuno di voi stabiliamo una Legge ed una Via» (V, 48), e dice: con il pronome di seconda persona plurale, “in «di voi», non si intendono se non i Profeti, e non le [loro] Comunità, perché se il riferimento fosse alle Comunità, non sarebbe mandato un Inviato ad una Comunità alla quale già è stato mandato un altro Inviato, a meno che non venisse solamente a rafforzare quest’ultimo, senza aggiungere e senza togliere nulla: ma le cose non stanno così (…).” In altre parole, se il «voi» delle citate parole coraniche si riferisse alle Comunità tradizionali, esse avrebbero perpetuamente «una Legge ed una Via» che nulla può intervenire a modificare; ma come dice giustamente Ibn ‘Arabî “le cose non stanno così”, in quanto, anche restando all’interno del linguaggio proprio dei dati tradizionali islamici intesi più esteriormente, è evidente che, per ragioni che dipendono direttamente dalla Sapienza divina e che hanno a motivo i mutamenti ‘ciclici’ dell’umanità e le deviazioni cui sono soggette di fatto le Religioni, gli Inviati di Dio intervengono ad imporre modificazioni assai rilevanti nelle varie forme tradizionali (come è il caso ad esempio di ‘Îsâ nei confronti dell’Ebraismo), o anche ad istituire forme tradizionali interamente ‘nuove’ rivolte anche ai membri delle Comunità tradizionali precedenti (come è il caso dell’Islam), per non parlare del fatto che se accettassimo il principio per cui ogni Comunità ha una propria struttura tradizionale valida in perpetuo, allora avrebbero ragione coloro che si propongono di ricostruire la Tradizione romana, o quella celtica, o quella germanica, o ancora quella egizia, a prescindere completamente da ciò che le ha legittimamente sostituite (dato il loro stato di degenerazione), cosa che non solo è palesemente impossibile (visto che tali tradizioni non hanno più alcun vero rappresentante, né si conoscono di preciso i loro riti), ma è anche fonte di illusioni e di vero disordine intellettuale, e non può che produrre risultati grotteschi. Premesso questo (che può essere letto ‘in contraltare’ rispetto alla poesia iniziale, dato che in essa si sostiene l’intangibilità della ‘Religione unica ed assoluta’, mentre qui si sostiene che Dio stesso può in effetti mandare i Suoi Inviati a modificare o anche a soppiantare certe ‘Religioni’), Ibn ‘Arabî passa a considerare il hadith in cui “il Profeta
dice: ‘Chi cambia la sua Religione uccidetelo!’ ” Qui pare esservi un monito molto pesante nei confronti delle ‘conversioni’, in quanto in linea di principio, come s’è detto all’inizio, la Religione “è una realtà unica ed assoluta”, e questo non solo nella sua origine primordiale, ma anche, come per riflesso, nelle varie forme che essa ha preso con l’instaurazione delle Tradizioni divine particolari, ognuna delle quali è in sé perfetta e sublime espressione della Verità, per quanto adattata ad una speciale situazione: che senso ha dunque, dal punto di vista che considera una tale purissima origine e il carattere divino delle varie Tradizioni, ‘cambiare Religione’?[1] Tuttavia, dice il sommo Maestro utilizzando il vocabolario argomentativo dell’exoterismo tradizionale, questo non vale per l’entrata nell’Islam, benché se “i sapienti dell’esteriore ritengono che” l’ingresso nell’Islam “sia comunque un ‘cambiamento’ ” di Religione, “benché ordinato” da Dio, “noi non la pensiamo così. Invero il cristiano e tutti coloro che fan parte della Gente del Libro, quando entrano nell’Islam non cambiano la propria Religione, dato che della loro Religione fa parte la Fede in Muhammad e l’ingresso nella sua
Legge sacra quando viene inviato come Messaggero. La sua Funzione di Messaggero (رسالة risâla) infatti è universale, e nessuno che segua una Religione ‘cambia Religione’ quando entra nell’Islam. Comprendi dunque.” L’Islam infatti da una parte, inteso nel suo senso profondo e ‘metastorico’, si identifica alla «Religione presso Allah» di cui si parlava, e che costituisce la fonte di tutte le forme tradizionali particolari; dall’altra, se lo si intende nel suo senso più specifico e nel suo costituirsi storico rappresenta la sintesi finale di tutto il mondo tradizionale, e contiene in sé una universalità senza pari (diametralmente opposta alla farsa ingannevole della ‘globalizzazione’, come l’unità è l’opposto dell’uniformità). L’ingresso nell’Islam in entrambi i casi non è dunque un ‘cambiamento di Religione’, ma è la Realizzazione della ‘propria Religione’ e lo svelamento del suo segreto (ciò che è espresso, nel linguaggio exoterico, dalla considerazione delle presenza in ogni Religione precedente della descrizione di Muhammad); meditino dunque su questo coloro che attenendosi ad una lettura superficiale di Guénon rifiutano di considerare il ‘privilegio’ islamico[2], come anche coloro che propongono un Islam esclusivamente ‘exoterista’ e settario, legato ad una concezione ristretta ed unilaterale della ‘dottrina dell’Unità’ (توحيد tawhîd), ed incapace per ciò stesso di assumere operativamente la portata ‘universale’ e metafisica che gli è propria, e di cui abbiamo parlato.[3] Ibn ‘Arabî termina poi la prima parte del capitolo considerando gli ‘idolatri’: dal momento che l’idolatria (شرك shirk) intesa in senso proprio “non è una Religione imposta da Dio, ma è qualcosa che è stato stabilito da altri che Allah”,[4] ecco che l’ingresso dell’idolatra in una Tradizione divina è vera ‘conversione’, e non è un ‘cambiamento di Religione’.
NOTE:
[1] Questa considerazione, come quella che precede e che riguarda il rinnegamento della ‘Tradizione unica’, costituisce la base dottrinale della norma della Legge sacra che prevede la messa a morte dell’apostata. Si ricordi tuttavia che per quest’ultimo è previsto un periodo, variabile secondo le scuole giuridiche, in cui gli deve essere spiegato chiaramente l’Islam e gli viene chiesto di desistere dal proprio proposito (استتاب istatâba). A prescindere dal carattere di clemenza insito in tale norma (che chiaramente permette di sfuggire alla morte anche con una menzogna), non v’è alcun dubbio che essa sia legittima in sé e nei suoi connotati simbolici, quando sia interpretata ed applicata da chi ha ben presente l’Islam comprensivo del suo aspetto più universale (mentre una sua applicazione da parte di chi comprende solo l’aspetto esteriore dell’Islam e nega la sua universalità è viceversa di legittimità assai dubbia, e lascia inevitabilmente spazio a contestazioni). Infatti, avendo l’Islam un fondamento (rappresentato dalla cosiddetta شهادة shahâda, o ‘testimonianza’, che لا اله الا الله lâ ilâha illâ Allah, ‘Non v’è divinità all’infuori di Allah’, e che محمد رسول الله Muhammad rasûlu-llah, ‘Muhammad è Inviato di Allah’), un fondamento dicevamo che è metafisico e contemplativo, e non ‘dogmatico’ o procedente dalle speculazioni della razionalità individuale, il suo rinnegamento con il disconoscimento del Principio unico (lâ ilâha illâ Allah), e dell’Uomo perfetto intermediario tra questo Principio e gli esseri creati (Muhammad rasûlu-llah), rappresenta a sua volta la ‘morte’, e cioè la negazione della vita, a qualsiasi livello la si consideri, nella sua Fonte prima e nel suo Principio mediato, in quanto ciò che si nega non è una certa visione parziale ed ‘individuale’ della Verità, ma è la Verità stessa per come è in sé (e per come è insita nella realtà stessa delle cose). Non diversamente, nel Cristianesimo tradizionale il rinnegamento di Cristo è già di per sé ‘morte’, in quanto rappresenta la contraddizione formale di colui che è “la Via, la Verità, la Vita.” Del resto, nella misura in cui l’‘apostasia’ è un rifiuto e un rinnegamento dell’Autorità divina che si esprime tramite l’‘Inviato di Dio’, si dovrà concordare con quanto dice ‘Abdu r-Razzâq Gilis in un articolo apparso nel 2015 nei Bollettini della casa editrice Le Turban noir, laddove dice che “combattere tale autorità comporta una sanzione che appartiene al diritto imprescrittibile di Dio (al-haqq), e non a una qualsiasi legge esteriore, anche se di ordine religioso. Questo diritto è attinente alla costituzione primordiale dell’uomo, così come è espressa nel versetto che recita: «Ho creato gli uomini e i jinn unicamente affinché Mi adorassero» (LI, 56). Ogni violazione arrecata a questo diritto, in particolare attraverso la negazione, la derisione e la blasfemia, è di una gravità estrema, perché attacca il fondamento del nostro stato di esistenza e ne compromette la legittimità.” Per questo, a far bene attenzione alle parole, è detto nella terminologia tecnica della Legge sacra che l’apostata يستتاب yustatâbu, ciò che letteralmente significa che ‘gli viene richiesta la توبة tawba’, parola che indica a sua volta propriamente la messa in atto di un ‘Ritorno al Principio’, e dunque, per esprimersi correttamente, di una ‘Conversione’ a Dio nel vero senso del termine, ciò che è ben altra cosa dal chiedere esclusivamente l’ingresso in una Religione nel senso esteriore e limitativo.
[2] Si deve osservare che quanto è espresso da Ibn ‘Arabî nella prima parte del capitolo che stiamo qui considerando è del tutto conforme, se appena si ha l’accortezza di andare al di là di certe apparenze e di un certo linguaggio (che era necessario utilizzare nelle condizioni e nell’epoca in cui le Futûhât furono redatte), a quanto dice Guénon (anche qui, secondo una terminologia adatta al suo tempo) sul tema del ‘cambiamento di Religione’: infatti, se il riferimento alla ‘Tradizione primordiale’ unica è troppo evidente nella sua opera perché ci si attardi a considerarlo, e se è ben noto quanto egli ebbe a dire sulle ‘conversioni’ (di modo che il cap. XII de Iniziazione e realizzazione spirituale, dal titolo Sulle conversioni, testo che potrebbe essere considerato, perlomeno nelle sue parti fondamentali, un commento esoterico del hadith profetico “Chi cambia la sua Religione uccidetelo”), per quanto riguarda l’entrata nell’Islam si dovrà considerare (a parte le eccezioni da lui esplicitamente menzionate nel citato testo Sulle conversioni) che nelle Conclusioni del suo Introduzione generale allo studio delle dottrine indù Guénon, dopo aver mostrato in cosa consista la ‘deviazione’ occidentale, ed aver previsto la drammatica possibilità che un ‘blocco’ dell’attuale civiltà occidentale porti l’Occidente stesso, privo di un fondamento superiore, alla barbarie, ritiene che una possibilità ben più fausta sia quella di una sua assimilazione da parte di una delle componenti dell’Oriente: e quale sarebbe tale ‘componente dell’Oriente’ se non l’Islam? E cosa significa ‘assimilazione’ se non assorbimento di parti consistenti dell’Occidente nella civiltà islamica, in quello che non è il risultato di un ‘proselitismo’ o missionarismo tendenziosi, ma del dilagare di un’influenza spirituale, con aspetti prevalentemente salvifici?
[3] Non ci nascondiamo che una parte delle persone che entrano nell’Islam in Occidente è fortemente influenzata da una tale concezione limitativa, tanto che paiono ricadere nel biasimo che Guénon riserva appunto ai ‘convertiti’; anche se alle loro spalle non v’è più, come all’epoca in cui Guénon scriveva, il Cattolicesimo, ma c’è, da un punto di vista tradizionale, il vuoto (ciò che permettere di vedere il loro caso sotto una luce un poco differente), pure proprio questa situazione impone un giudizio severo dal punto di vista dalla necessità assoluta, in un momento di scatenamento delle forze anti-tradizionali, da una parte di andare a fondo dell’Islam, e dall’altra di permettere che questo prenda ad irraggiare come ultima Tradizione divina, comprensiva in nuce di tutto ciò che la precede. Costoro hanno il compito preciso quanto meno di adeguarsi alle pratiche ed all’attitudine dell’exoterismo tradizionale islamico: solo in questo modo potranno passare da un’adesione ‘sentimentale’ e settaria all’Islam ad un’adesione vera e profonda, e iniziare ad acquisire per gradi certi aspetti della Conoscenza (conformemente alle parole coraniche «Temete Allah, e Allah vi darà Conoscenza», II, 272), godendo delle Grazie dell’Islam, evitando di esprimere giudizi su ciò che non conoscono e cessando di esser di danno a sé e agli altri.
[4] Si ricordi quanto dice Guénon sul fatto che nessuna Tradizione è in sé idolatria.