Dalla testimonianza concordante di tutte le tradizioni deriva chiaramente questa conclusione: che esiste una «Terra Santa» per eccellenza, prototipo di tutte le altre «Terre Sante», centro spirituale cui tutti gli altri centri sono subordinati. La «Terra Santa» è anche la «Terra dei Santi», la «Terra dei Beati», la «Terra dei Viventi», la «Terra d'Immortalità»; queste espressioni sono tutte equivalenti e bisogna aggiungervi quella di «Terra Pura» che Platone attribuisce in particolare al «soggiorno dei Beati». Si usa situare tale soggiorno in un «mondo invisibile»; ma, se si vuol capire di che cosa si tratta, non bisogna dimenticare che lo stesso accade per le «gerarchie spirituali» di cui tutte le tradizioni parlano e che rappresentano in realtà dei gradi di iniziazione. Nel periodo attuale del nostro ciclo terrestre, cioè nel "Kali-Yuga", questa «Terra Santa», difesa da «guardiani» che la nascondono agli sguardi profani garantendone tuttavia certe relazioni esterne, è di fatto invisibile, inaccessibile, ma soltanto per coloro che non possiedono le qualificazioni richieste per penetrarvi.
René Guénon: Il Re del mondo Adelphi Edizioni, Milano 2008, 112 pagg., (in distribuzione) - € 9,50 - ISBN 9788845903250
Il titolo di «Re del Mondo», preso nella sua accezione più elevata, più completa e nel medesimo tempo più rigorosa, si applica propriamente a Manu, il Legislatore primordiale ed universale, il cui nome si trova, sotto varie forme presso un gran numero di popoli antichi; rammentiamo a questo proposito il Mina o Ménes degli Egizii, il Menu dei Celti e il Minos dei Greci. Questo nome, d'altronde, non designa affatto un personaggio storico o più o meno leggendario; quello che in realtà designa, è un principio, l'Intelligenza cosmica che riflette la Luce spirituale pura e formula la Legge (Dharma) propria alle condizioni del nostro mondo o del nostro ciclo di esistenza; e nel medesimo tempo esso è l'archetipo dell'uomo considerato specialmente in quanto essere pensante (in sanscrito manava). D'altra parte, quello che qui importa essenzialmente osservare, è che questo principio può essere manifestato per mezzo di un centro spirituale stabilito nel mondo terrestre, per mezzo di una organizzazione incaricata di conservare integralmente il deposito della tradizione sacra, di origine «non umana» (apauru-sheya), per mezzo di cui la Saggezza primordiale si comunica attraverso le età a coloro che sono capaci di riceverla. Il capo di una tale organizzazione, rappresentando in certo modo lo stesso Manu, potrà portarne legittimamente il titolo e gli attributi; e, per il grado di conoscenza che deve avere raggiunto .per potere esercitare la sua funzione, egli si identifica altresì realmente col principio di cui è come l'espressione umana, principio dinanzi al quale la sua individualità scompare. [...]
Questo è ben il caso dell'Agarttha, se questo centro ha raccolto, come l'indica Saint-Yves, l'eredità dell'antica «dinastia solare» (Surya-vansha) che risiedeva un tempo a Ayodhyà, e che faceva risalire la sua origine a Vaivaswata, il Manu del ciclo attuale. Pertanto, come abbiamo già detto, Saint-Yves non considera il capo supremo dell'Agarttha come «Re del Mondo»; egli lo presenta come «Sovrano Pontefice», ed inoltre, lo colloca alla testa di una «Chiesa brahmanica» designazione che procede da una concezione un po' troppo occidentalizzata. A parte quest'ultima riserva, quello che egli dice completa, a questo proposito, quel che Ossendowski dice dal suo canto; sembra che ognuno di essi non abbia veduto che l'aspetto che rispondeva più direttamente alle sue tendenze ed alle sue preoccupazioni dominanti, perché qui si tratta, in verità, di un doppio potere, sacerdotale e regale ad un tempo. Il carattere «pontificale», nel senso più vero di questa parola, appartiene difatti realmente, e per eccellenza, al capo della gerarchia iniziatica, e ciò richiede una spiegazione: letteralmente, il Pontifex è un «costruttore di ponti», e questo titolo romano è, per la sua origine, in qualche maniera un titolo «massonico»; ma, simbolicamente, è colui che compie la funzione di mediatore, stabilendo la comunicazione tra questo mondo ed i mondi superiori. A questo titolo, l'arcobaleno, il «ponte celeste», è un simbolo naturale del «pontificato»; e tutte le tradizioni gli danno significati perfettamente concordanti: così, presso gli Ebrei, era il pegno dell'alleanza di Dio, col suo popolo; in Cina è il segno dell'Unione del Cielo e della terra; in Grecia rappresenta Iris, la «messaggera degli Dei»; un po' dovunque, presso gli Scandinavi come presso i Persiani e gli Arabi, in Africa centrale e sin presso certi popoli dell'America del Nord, è il ponte che collega il mondo sensibile al soprasensibile. D'altra parte, l'unione dei due poteri sacerdotale e regale era rappresentata, presso i latini, da un certo aspetto del simbolismo di Janus, simbolismo estremamente complesso ed a significati multipli; le chiavi d'oro e d'argento raffiguravano, sotto lo stesso rapporto, le due iniziazioni corrispondenti. Si tratta, per usare la terminologia hindu, della via dei Brâhmani e di quella degli Kshatriya; ma, al vertice della gerarchia ci si trova nel principio comune da cui gli uni e gli altri traggono le loro rispettive attribuzioni, al di là dunque della loro distinzione, poiché ivi è la fonte di ogni autorità legittima, qualunque sia il dominio in cui si eserciti; e gli iniziati dell'Agarttha sono ativarna, vale a dire «al di là delle caste». Nel medio evo esisteva un'espressione nella quale i due aspetti complementari dell'autorità si trovavano riuniti in una maniera assai degna di nota: si parlava spesso, in quel tempo, d'una contrada misteriosa cui davasi il nome di «regno del prete Gianni». Era il tempo in cui quella che si potrebbe designare come la «copertura esteriore» del centro in questione era formata, per una buona parte, dai Nestoriani (o quello che a torto od a ragione si è convenuto di chiamare in tal modo) e dai Sabei; e, precisamente, questi ultimi davano a se stessi il nome di Mendayyeh di Yahia, vale a dire «discepoli di Giovanni».
A questo proposito, possiamo subito fare un'altra osservazione: è per lo meno curioso che molti gruppi orientali a carattere molto chiuso, dagli Ismaeliti o discepoli del «Vecchio della Montagna» ai Drusi del Libano, abbiano uniformemente assunto, tale quale come gli Ordini di cavalleria occidentali, il titolo di «guardiani della Terra Santa». Quel che segue farà senza dubbio comprendere meglio il possibile significato di questo fatto; sembra che Saint-Yves abbia trovato un'espressione assai appropriata, ancora di più forse che egli stesso non pensasse, quando parla dei «Templari dell'Agarttha». Perché non ci si stupisca dell'espressione «copertura esteriore» che abbiamo adoperato, aggiungeremo che bisogna ben porre attenzione a questo fatto che l'iniziazione cavalleresca era essenzialmente una iniziazione di Kshatriyas; il che spiega, tra le altre cose, la parte preponderante che vi rappresenta il simbolismo dell'Amore. Qualunque sia il valore di queste ultime considerazioni, in Occidente l'idea di un personaggio che è ad un tempo prete e re non è molto corrente, sebbene si trovi, all'origine stessa del Cristianesimo, rappresentata in maniera chiarissima dai «Re Magi»; anche nel medio evo (almeno secondo le apparenze esteriori) il potere supremo era diviso tra il Papato e l'Impero. Ma tale separazione può essere considerata come il contrassegno di una organizzazione incompleta dall'alto, se è lecito così esprimersi, poiché non vi si vede apparire il principio comune da cui procedono e dipendono regolarmente i due poteri; il potere veramente supremo doveva quindi trovarsi altrove. In Oriente, al contrario, il mantenimento di una tale separazione al vertice stesso della gerarchia è assai eccezionale, e non è che in certe concezioni buddiste, che ci si imbatte in qualche cosa di simile; vogliamo alludere all'incompatibilità affermata tra la funzione di Buddha e quella di Chakravartî o «monarca universale», quando è detto che Shâkya-Muni dovette, a un certo momento, scegliere tra l'una e l'altra. Conviene aggiungere che il termine Chakravartî, che non ha nulla di specialmente buddhico, s'applica molto bene, secondo i dati della tradizione indù, alla funzione del Manu o dei suoi rappresentanti: è, letteralmente «colui che fa girare la ruota», vale a dire colui che, collocato nel centro di tutte le cose, ne dirige il movimento senza egli stesso parteciparvi, o che ne è, secondo l'espressione di Aristotile, il «motore immobile». Richiamiamo in modo specialissimo l'attenzione su questo: il centro di cui si tratta è il punto fisso che tutte le tradizioni sono concordi nel designare simbolicamente come il «Polo», poiché è intorno ad esso che si effettua la rotazione del mondo, rappresentato generalmente dalla ruota, presso i Celti tanto quanto presso i Caldei e gli Hindu.
Tale è il vero significato dello swastika, questo segno che si trova diffuso dappertutto, dall'Estremo Oriente all'Estremo Occidente, e che è essenzialmente il «segno del Polo»; è senza dubbio la prima volta, nell'Europa moderna, che se ne fa qui conoscere il senso reale. Gli scienziati contemporanei, difatti, hanno cercato vanamente di spiegare questo simbolo con le teorie più immaginose; la massima parte di essi, ossessionati da una specie di idea fissa, ha voluto vedere, qui come quasi dovunque altrove, un segno esclusivamente «solare», mentre che, se talora lo è divenuto, ciò non ha potuto essere che accidentalmente ed in modo deviato. Altri si sono avvicinati maggiormente alla verità considerando lo swastika come il simbolo del movimento; ma questa interpretazione senza essere falsa, è grandemente insufficiente, perché non si tratta di un movimento qualunque, ma di un movimento di rotazione che si compie intorno ad un centro od ad un asse immutabile; ed è il punto fisso che è, lo ripetiamo, l'elemento essenziale a cui si riferisce direttamente il simbolo in questione. Da quanto ora abbiam detto, si può già comprendere che il «Re del Mondo» deve avere una funzione essenzialmente ordinatrice e regolatrice (e si osserverà che non è senza una ragione che quest'ultima parola ha la medesima radice di rex e di regere), funzione che può riassumersi in una parola come «equilibrio» o «armonia», il che è reso in sanscrito precisamente dal termine Dharma: Noi intendiamo con ciò il riflesso, nel mondo manifestato, dell'immutabilità del Principio supremo. Si può comprendere anche, mediante le medesime considerazioni, perché il «Re del Mondo» ha per attributi fondamentali la «Giustizia» e la «Pace», che non sono che le forme più specialmente rivestite da questo equilibrio e da questa armonia nel «mondo dell'uomo» (manavaloka). È anche questo un punto della più grande importanza; ed, oltre alla sua portata generale, lo segnaliamo a coloro che si abbandonano a certe paure chimeriche, di cui è contenuta come una eco nelle ultime linee del libro stesso di Ossendowski. (tratto dal capitolo II; Regalità e pontificato)
INDICE GENERALE: I - Nozioni sull'«Agarttha» in Occidente. II - Regalità e pontificato. III - La «Shekinah» e «Metatron». IV - Le tre funzioni supreme. V - Il simbolismo del Graal. VI - «Melki-Tsedeq». VII - «Luz» o il soggiorno d'immortalità. VIII - Il centro supremo nascosto durante il «Kali-Yuga». IX - L'«Omphalos» e i betili. X - Nomi e rappresentazioni simboliche dei centri spirituali. XI - Localizzazione dei centri spirituali. XII - Alcune conclusioni.