Collana "Al-Bukhârî: Il Sahîh, ‘La giustissima sintesi’." Per lo studio degli hadith, i ‘detti e fatti’ del Profeta Muhammad
Si tramanda da Al-Barâ’: “Il Profeta appena arrivato a Medina dimorò presso i suoi nonni”, o forse disse ‛presso i suoi zii materni’, “fra gli ‛aiutanti’. Egli pregò in direzione di Gerusalemme per sedici o diciassette mesi, sebbene avesse preferito orientarsi ritualmente in direzione della Casa [santa di Mecca]. La prima preghiera (salât) che eseguì [in tale direzione] fu una preghiera del pomeriggio avanzato (salâtu l-’asr), che compì assieme ad altri. Uno di quelli che avevano pregato con lui uscì, e passando accanto ad un gruppo di fedeli che stavano eseguendo l’inchino rituale in moschea, disse loro: ‘Lo attesto su Dio: ho pregato con l’Inviato di Dio in direzione di Mecca!’”
Al-Bukhârî, Muhammad ben Ismâ‘îl: Il Sahîh, ovvero ‘La giustissima sintesi’. I Libri introduttivi Campegine (RE) 2° Edizione 2022, Edizioni ‘Orientamento/Al-Qibla’, 260 pagg., € 19,50 - ISBN 9788889795019
Per la conoscenza dell’Islam, hanno un’importanza basilare i cosiddetti hadith, e cioè i ‘detti e fatti’ del Profeta Muhammad, i quali, come è risaputo, costituiscono dopo il Corano il fondamento della Tradizione islamica nel suo complesso (e cioè tanto per l’ambito exoterico quanto per quello esoterico, tanto per la determinazione della Legislazione sacra quanto per le modalità e i principi costitutivi delle Vie iniziatiche, tanto per l’aspetto morale quanto per la ricerca della conoscenza sacra).
Ora, il problema è che per gli hadith non esistono traduzioni complete e pienamente attendibili (con la fortunata eccezione de Il giardino dei devoti di Nawawi, testo prezioso anche se non privo di limiti), e questo per motivi di ordine diverso, sebbene in ogni caso riconducibili da una parte alla oggettiva difficoltà del lavoro (che necessita grande rispetto e capacità di penetrazione dei significati propriamente spirituali, ma anche una notevole preparazione tecnica, dato che esso abbisogna di ricerche minuziose nelle fonti esegetiche per la comprensione stessa di molte parole, e del tessuto narrativo), e dall'altra alla mancanza di quello spirito di sacrificio, e anzi di quella vera e propria consacrazione che è indispensabile quando si ha a che fare con la trasposizione dei Testi sacri in ambiti culturali e linguistici diversi da quelli di partenza. Il risultato è che per gli hadith, quand’anche si abbia la fortuna di trovare una qualche traduzione, non solo manca completamente il commento ‘tradizionale’ (cosa che è vera anche per il Corano), ma molto spesso ci si trova di fronte a gravi errori nella resa stessa del testo di base, errori che arrivano a trarre radicalmente in inganno il lettore (mentre viceversa nel caso del Corano la gran quantità di traduzioni che si sono succedute nei decenni, e anche nei secoli, impediscono per lo più di incorrere in svarioni clamorosi). Per iniziare a porre rimedio a tale situazione (incresciosa non solo per gli italiani che vogliono studiare l’Islam, ma anche per i Musulmani stessi, se non altro quelli, sempre più numerosi, che possono avvalersi come lingua scritta solamente dell’italiano), le edizioni ‘Orientamento/Al-Qibla’ propongono la traduzione dei primi tre libri della più importante delle raccolte ‘canoniche’ di hadith, il Sahîh di Al-Bukhârî, accompagnata da un commento basato sui principali esegeti musulmani (principalmente Al-‘Aynî, Al-‘Asqalânî, Ibn Battâl, Ibn Abî Giamra e Al-Qastalânî), e non ignaro di tutto ciò che è stato possibile trovare nei testi di altri Maestri, come Ibn ‘Arabî e Al-Gazâlî, a proposito degli hadith citati. Ne risulta un libro nello stesso tempo profondo e di agevole lettura, col quale si accede finalmente al mondo degli hadith, vera chiave per la comprensione della realtà profetica. Nel dettaglio, dopo una nota introduttiva in cui vengono riassunti i dati fondamentali della biografia tradizionale di Al-Bukhârî, abbiamo nell’ordine: il ‘Libro primo’ (Dell’inizio dell’ispirazione), in cui si ricordano i principali resoconti riguardanti le modalità della discesa dell’ispirazione divina sul Profeta Muhammad (su di lui la preghiera e la pace divine), fondamentali nella storia sacra dell’Islam, che vengono per così dire ‘incorniciati’ dal hadith iniziale sulla natura al contempo interiore e principiale della Fonte da cui trae origine l’intero edificio della Tradizione islamica, e dal hadith conclusivo, con l’incontro tra l’imperatore bizantino Eraclio e alcuni mercanti meccani, e la lettera inviata dal Profeta al medesimo sovrano, hadith di grande importanza per i rapporti tra l’Islam e la Tradizione occidentale, e per l’appello alla difesa e alla riproposizione di un ‘deposito’ comune e primordiale di origine divina. Quindi abbiamo il ‘Libro secondo’ (Della fede), in cui il Profeta insiste sul carattere operativo della ‘fede’, la quale, pur avendo sede nel cuore, finisce per identificarsi alla parola e all’atto rituali. Infine nel ‘Libro terzo’ (Della conoscenza) viene presa in considerazione la conoscenza delle cose divine (sia nel senso teologico, sia in quello propriamente metafisico), avendo di mira soprattutto le modalità necessarie alla sua acquisizione e alla sua trasmissione.
INDICE GENERALE - Libro primo: Dell'inizio dell'ispirazione. Introduzione al libro primo (seguono 7 capitoli). Libro secondo: Della fede; Introduzione al Libro secondo (seguono 41 capitoli). Libro terzo: Della conoscenza. Introduzione al Libro terzo (seguono 53 capitoli). Bibliografia. Indici
Si tramanda da Nu‘aymu l-Mujmir: “Salii assieme ad Abû Hurayra sul tetto della moschea. Egli fece l’abluzione, quindi disse: ‘Ho sentito il Profeta (su di lui la preghiera e la pace divine) che diceva: Il Giorno della Resurrezione [quelli del]la mia comunità saranno detti avere una chiazza di luce sulla fronte, alla maniera di certi meravigliosi cavalli aventi anche bianchissime balzane sulle zampe, e questo per gli effetti dell’abluzione. Chi di voi è in grado di allungare la sua chiazza di luce, lo faccia.’ ”
Al-Bukhârî, Muhammad ben Ismâ‘îl: Il Sahîh, ovvero ‘La giustissima sintesi’. I Libri riguardanti la purificazione rituale Campegine (RE) 2009, Edizioni ‘Orientamento/Al-Qibla’, 479 pagg., € 23,00 - ISBN 9788889795033
Dopo la pubblicazione dei primi tre ‘Libri’ del Sahîh (la principale raccolta islamica di hadith, i ‘detti e fatti’ del Profeta Muhammad) raccolti in un unico volume, Libri che definivamo ‘introduttivi’ in quanto trattando dell’‘inizio dell’ispirazione’, della ‘fede’ e della ‘conoscenza’ nella logica dell’opera di Al-Bukhârî rappresentano ciò che dell’insegnamento e dell’esempio dell’Inviato di Dio è necessario conoscere prima di ogni altra cosa, ecco la traduzione integrale commentata (con testo a fronte) degli altri quattro ‘Libri’ del Sahîh, quelli che riportano gli hadith profetici riguardanti i vari aspetti della purificazione rituale: il ‘Libro quarto’ sull’abluzione minore (il wudû’), il ‘Libro quinto’ sull’abluzione maggiore (in arabo gusl), il ‘Libro sesto’ sulle mestruazioni (hayd), e il ‘Libro settimo’ sul tayammum, e cioè sul fatto di utilizzare, secondo l’espressione coranica, della «polvere buona» per purificarsi, in assenza d’acqua e in altre situazioni particolari.
Ora, il Sahîh nell’Islam viene definito ‘il più giusto dei libri dopo il Corano’: dopo i prolegomeni di cui abbiamo parlato, questo Testo meraviglioso (che è strumento indispensabile per la conoscenza della realtà profetica nella sua dimensione spirituale, e al contempo base per l’elaborazione delle norme della Legge sacra) si appresta a lanciarsi nella descrizione dei riti che il credente è tenuto a mettere in atto, descrizione che occuperà 26 dei 97 Libri di cui è composta l’opera. Prima però bisogna occuparsi della condizione necessaria nella maggior parte dei casi perché i riti siano efficaci in quanto ‘azioni conformi all’Ordine’ e in grado mettere l’uomo in relazione a Dio, e cioè lo stato di ‘purezza’ (tahâra): in che cosa consiste, come si perde e come si acquisisce nuovamente. Il credente, nelle parole dell’Inviato di Dio, “non è mai immondo” (hadith 283), essendo pura la sua natura (fitra). Tuttavia ogni giorno gli aspetti grossolani che pure dell’uomo fanno parte offuscano la sua ‘capacità rituale’, e cioè la possibilità di attualizzare pienamente il rapporto con il Principio; tale temporanea decadenza, pur non essendo ‘peccato’, e pur non cancellando la purissima condizione ‘originale’ dell’uomo, richiede l’intervento della ‘purificazione rituale’, che viene messa in atto per mezzo dell’interiore volontà che chiamiamo ‘intenzione’ associata all’intervento dell’‘elemento’ acqua (che è vita, e che è conoscenza), o in alternativa dell’‘elemento’ terra (che è soprattutto umiltà), secondo modalità differenziate nei diversi tipi di ‘abluzione’, modalità che disegnano una geografia spirituale gerarchizzante delle varie parti del corpo umano interessate. In questo modo, l’effetto della ‘decadenza ciclica’ dell’uomo viene ad annullarsi prima virtualmente, poi fattivamente: ah, formidabile difesa quella quotidianamente messa in atto dal wudû’, dal gusl e dal tayammum! Quanto vantaggio ne trarrebbe l’uomo occidentale, la cui condizione di allontanamento dal ‘sacro’ pare così irrimediabile! Quale arma decisiva avrebbe nelle mani per mettere ogni cosa al suo posto dentro di sé, e per battere le influenze demoniache costantemente risorgenti, ed esternamente dilaganti! Un ‘Libro’ a parte, come abbiamo detto, è dedicato dal Bukhârî alle mestruazioni e ai problemi specifici che esse pongono alle donne in relazione appunto alla ‘purezza’: neanche la donna mestruata (che non prega e non digiuna) è radicalmente ‘immonda’, o ‘impura’ nella sua essenza, e la sua paziente attesa della fine delle ciclo mestruale le viene ascritta come opera di adorazione.
INDICE GENERALE - Libro quarto: Dell'abluzione minore. Introduzione al libro quarto (seguono 75 capitoli). Libro quinto: Dell'abluzione maggiore. Introduzione al Libro quinto. Preambolo (seguono 28 capitoli). Libro sesto: Delle mestruazioni. Introduzione al Libro sesto. Preambolo (seguono 30 capitoli). Libro settimo: Del tayammum. Introduzione al Libro settimo. Preambolo (seguono 9 capitoli). Bibliografia. Indici
"«Allâh impose alla mia comunità cinquanta preghiere. Tornai con quelle sino a passare da Mûsâ, il quale mi chiese: 'Cosa ti ha imposto Allah per la tua comunità?' 'Cinquanta preghiere.' 'Torna dal tuo Signore, perché la tua comunità non può sopportare questo.' Egli allora ne tolse una parte. Tornai da Mûsâ, e gli dissi: 'Ne ha tolto una parte.' 'Torna dal tuo Signore,' disse, 'perché la tua comunità non può sopportare questo.' Tornai, e ne tolse una parte. Passai ancora da Mûsâ, che disse: Torna dal tuo Signore, perché la tua comunità non può sopportare questo.' Cosi, andai da Lui, che disse: 'Sono cinque, e sono cinquanta: e presso di Me la Parola non cambia.' "
Al-Bukhârî, Muhammad ben Ismâ‘îl: Il Sahîh, ovvero ‘La giustissima sintesi’. I Libri riguardanti la preghiera: prima parte Campegine (RE) 2013, Edizioni ‘Orientamento/Al-Qibla’, 521 pagg., € 23,70 - ISBN 9788889795156
Il presente volume contiene la traduzione commentata di due dei novantasette ‘Libri’ di cui è costituito il Sahîh di Al-Bukhârî, la più importante raccolta di hadith (e cioè ‘detti e fatti’) relativi al Profeta Muhammad (su di lui la preghiera e la pace divine). Si tratta dei ‘Libri’ ottavo e nono, che costituiscono la prima parte della sezione del Sahîh dedicata alla preghiera (salât), sezione che comprende in totale sedici Libri (dall’ottavo al ventitreesimo), e può essere appunto suddivisa, per comodità editoriale, in quattro parti: prima parte, Libri ottavo e nono; seconda parte, Libro decimo; terza parte, Libri dall’undicesimo al diciottesimo; quarta parte, Libri dal diciannovesimo al ventitreesimo. La presente pubblicazione segue quelle dell’Aprile 2008, contenente la traduzione commentata dei Libri introduttivi del Sahîh, e cioè: il Libro primo (Dell’inizio dell’ispirazione); il Libro secondo (Della fede); il Libro terzo (Della conoscenza) e quella dell’Ottobre 2009, con i Libri riguardanti la purificazione rituale, e dunque: il Libro quarto (Dell’abluzione minore); il Libro quinto (Dell’abluzione maggiore); il Libro sesto (Delle mestruazioni); il Libro settimo (Del tayammum, o ‘abluzione pulverale’).
Quanto alla ‘successione logica’ dei primi nove Libri dell’opera di Al-Bukhârî (e cioè i sette che abbiamo già considerato e i due che sono qui studiati), essa si spiega come segue. Il Libro primo tratta dell’origine della forma tradizionale islamica, con l’ispirazione divina discesa sul Profeta Muhammad (su di lui la preghiera e la pace divine); dopo la determinazione di questo primo momento, il Libro secondo riguarda la ‘Fede’ intesa nel senso di un esprimersi ‘operativo’ del momento iniziale ed interiore dell’ispirazione; il Libro terzo considera la ‘Conoscenza’ sacra come condizione e ragion d’essere dell’intero edificio tradizionale islamico. Di tale edificio tradizionale le fondamenta sono costituite dai ‘riti’, e in special modo dalla ‘preghiera’ (salât) quale momento principale di conformità all’Ordine superiore e affermazione del legame con Dio. Tuttavia, prima di affrontare l’argomento della salât Al-Bukhârî deve rendere conto di ciò che è necessario premettere a quest’ultima, e cioè la purificazione rituale, ai vari aspetti della quale sono quindi dedicati i Libri del Sahîh che vanno dal quarto al settimo. Dopo di che, con il Libro ottavo si inizia a parlare direttamente della ‘preghiera’: l’intitolazione del Libro nell’originale (e cioè semplicemente Kitâbu s-salât, ‘Libro della preghiera’) segna appunto lo stacco con i Libri che precedono, e l’ingresso in una argomentazione riguardante specificamente l’ambito rituale. Ci siamo permessi di ampliare in italiano il titolo stesso così da render conto più opportunamente del suo contenuto: Della preghiera: suo principio e sue condizioni preliminari; infatti nel Libro ottavo non si tratta tanto della preghiera in sé, quanto della sua origine divina (dall’Ordine di Allah ricevuto dal Profeta durante l’Ascensione), e di ciò che ne costituisce la sua concreta premessa, e cioè da una parte il corretto disporsi dell’ambiente in cui essa si svolge (e dunque del masgid, termine che indica la ‘moschea’ ma non solo, come si vedrà), e dall’altra il preservare da ogni intrusione l’orientamento ad Allah rappresentato dalla qibla. Stabilito questo, e determinato in altre parole quale sia l’opportuno disporsi per la preghiera dell’ambito ‘spaziale’, Al-Bukhârî passa al Libro nono (Dei momenti per la preghiera), laddove si tratta viceversa nel dettaglio delle condizioni ‘temporali’ prescritte per la salât. Come si vede, i due Libri che qui prendiamo in esame, l’ottavo e il nono, che costituiscono come s’è detto la prima parte della sezione del Sahîh dedicata alla preghiera, sono in realtà una premessa al tema, che verrà affrontato più direttamente nel Libro decimo, dove il rito principale dell’Islam sarà studiato nel dettaglio, a partire dall’appello alla preghiera (che darà il titolo al Libro). Una particolare avvertenza al lettore riguarda la modalità di fruizione del Sahîh: essendo una ‘raccolta di hadith’, il testo di Al-Bukhârî permette indubbiamente di esser letto al livello del singolo hadith, che potrà essere considerato appunto da solo quale profetica indicazione, e meditato operativamente di conseguenza. Tuttavia, vi sono anche altri due livelli: quello dei ‘capitoli’ (che possono essere visti ognuno come un singola trattazione) e quello dei ‘Libri’ (ognuno dei quali costituisce un insieme dottrinale opportunamente disposto al dispiegarsi dell’intera gamma degli insegnamenti profetici relativi ad un determinato argomento). Abbiamo cercato nella nostra traduzione commentata di invitare a tutte e tre queste letture, così che egli possa gustare a pieno la ricchezza di un’opera costruita con sottile sapienza al fine di permettere la profonda comprensione della realtà profetica, venendo di conseguenza ad illuminare i motivi dei riti istituiti sulla base dell’esempio dell’Inviato di Dio (su di lui la preghiera e la pace divine), e delle modalità loro proprie, facendo intuire in tal modo, al di là di ogni ‘legalismo’ ma nel rispetto profondo delle Norme venerabili, la presenza di una divina Sapienza che presiede alla Legge sacra muhammadiana e ne garantisce l’efficacia e la vitalità spirituale.
INDICE GENERALE - Libro ottavo: Della preghiera, suo Principio e sue condizioni preliminari. Introduzione al libro ottavo (seguono 99 capitoli). Libro nono: Dei momenti della preghiera. Introduzione al Libro nono (seguono 41 capitoli). Bibliografia. Indici
Si tramanda da Abû Sa‘sa‘ che Abû Sa‘îd Al-Khudrî gli disse: “Vedo che ti piacciono le greggi e i luoghi lontani dai centri abitati. Quando dunque sei tra le tue greggi, o comunque nei luoghi in cui vai quando ti allontani dalle zone abitate, e fai l’appello alla preghiera, alza bene la voce nella chiamata: infatti, non v’è uomo, ginn o cosa qualsiasi che oda l’estendersi della voce di chi fa l’adhân senza portarne testimonianza il Giorno della Resurrezione.” Quindi Abû Sa‘îd aggiunse: “L’ho udito dall’Inviato di Allah .”
Al-Bukhârî, Muhammad ibn Ismâ‘îl: Il Sahîh, ovvero ‘La giustissima sintesi’. I Libri riguardanti la preghiera: seconda parte Campegine (RE) 2018, Edizioni ‘Orientamento/Al-Qibla’, 620 pagg., € 24,00 - ISBN 9788889795231
Dall'"Introduzione al Libro decimo"
Come dicevamo a più riprese introducendo i precedenti Libri del Sahîh, questi ultimi sono posti in una successione logica del tutto esatta e perfettamente comprensibile: abbiamo infatti i Libri primo, secondo e terzo (la cui traduzione commentata costituisce il primo dei volumi da noi dedicati al testo di Al-Bukhârî, Il Sahîh. I Libri introduttivi), che riguardano rispettivamente l’ispirazione muhammadiana, da cui procede la Tradizione islamica nel suo complesso, la ‘Fede’ in quanto aspetto operativo essenziale dell’Islam, e la ‘Conoscenza’ sacra come elemento fondante dell’edificio tradizionale islamico. Di seguito si inizia a parlare dell’attività ‘rituale’ (e dunque in primis del rito della preghiera, صلاة salât), come conformità all’Ordine divino e Orientamento principiale, che esplicita quanto era implicito nella Fede e nella Conoscenza. Abbiamo inizialmente i quattro Libri (e dunque quarto, quinto, sesto e settimo) dedicati alle varie modalità con le quali il fedele si ‘purifica’ per accedere al rito, da noi raccolti nel volume Il Sahîh. I Libri riguardanti la purificazione rituale. Di seguito, nel Libro ottavo del Sahîh si parla delle condizioni preliminari della preghiera (ed in particolare della moschea e dell’orientazione dell’orante verso la qibla), e nel Libro nono degli ‘orari della preghiera’: questi due Libri ottavo e nono sono compresi nel nostro volume intitolato Il Sahîh. I Libri riguardanti la preghiera (prima parte). In effetti, il Sahîh contiene sedici Libri (dall’ottavo al ventitreesimo) nei quali si parla della preghiera, Libri che possono essere suddivisi a livello editoriale in quattro parti: la prima con i Libri ottavo e nono; la seconda, che è quella contenuta nel presente volume, con il Libro decimo; la terza con i Libri dall’undicesimo al diciottesimo e la quarta con i Libri dal diciannovesimo al ventitreesimo.
Venendo ora a questo Libro decimo, detto ‘dell’appello alla preghiera’ (كتاب ﺍﻻﺫﺍﻥ kitabu l-adhân), diremo prima di tutto che il suo argomento (l’adhân appunto) si ricollega concettualmente al tema del Libro precedente, sui tempi della preghiera, in quanto l’appello alla preghiera viene istituito per avvertire del tempo corretto per la salât, come detto nel hd. 606 (cap. 2), versione del hd. 603, primo hadith riportato in questo Libro decimo. Più in generale, il Libro parte dalla considerazione dell’adhân per poi andare come a rispondere implicitamente alla seguente domanda: cosa accade in conseguenza dell’appello alla preghiera? Ecco che viene studiato nel dettaglio l’attuarsi di ciò che segue ad un tale appello, e cioè il radunarsi dei fedeli dietro l’Imam e l’effettuazione della preghiera.
Ma vediamo la cosa con maggior precisione: abbiamo all’inizio un gruppo di 28 capitoli dedicati alle due modalità con cui si chiama alla salât, e dunque in specifico all’appello alla preghiera propriamente detto (adhân) e al successivo ‘richiamo’ ad essa (اقامة iqâma). Nei primi capitoli (1, 2 e 3) si considera il momento della ‘storia sacra’ dell’Islam in cui si comincia a sentire l’esigenza di dare notizia ai fedeli che abitano in un certo luogo della necessità di riunirsi insieme per le preghiere d’obbligo, e l’ordine profetico rivolto a Bilâl di effettuare una chiamata con la sola voce, secondo la nota formulazione non citata espressamente per intero da Al-Bukhârî, ma che riportiamo nel nostro commento assieme alle sue principali varianti. Il termine adhân infatti indica propriamente (e secondo l’etimologia) il fatto di ‘avvertire’ di qualche cosa, o il ‘farla conoscere’ (da cui l’efficacissima affermazione di Ibn ‘Arabî, secondo il quale l’adhân è ‘trasmissione di Conoscenza’ sacra che ha luogo ‘per mezzo di un Annuncio’). Nel cap. 4 si ricorda l’eccellenza dell’appello alla preghiera: il demonio (شيظان shaytân, da una radice che indica l’idea di essere ‘allontanato’, ‘scacciato’) non può non allontanarsene; del resto, l’adhân è il luogo in cui si annuncia l’affermarsi della ‘Prossimità’ al Principio, per cui in esso non v’è alcuno spazio per un qualsiasi ‘allontanamento’, e tale è la sua più grande ‘eccellenza’. Nel cap. 5 si chiarisce poi come tale eccellenza è tanto maggiore quanto più la voce del muezzin si estende, dato che “non v’è uomo, ginn o cosa qualsiasi che oda l’estendersi della voce di chi fa l’adhân senza portarne testimonianza il Giorno della Resurrezione”, come è detto nel hd. 609; una tale ‘estensione’ della chiamata a pregare allude all’universalità della trasmissione di Conoscenza che è simboleggiata (ed anche attualizzata) dall’appello alla preghiera, e questo a guisa di un’influenza spirituale che si espande perché corre al di sopra delle opinioni individuali in reciproca contraddizione, e non di un ‘proselitismo’ sentimentale che vorrebbe forzare gli altri ad aderire ad una certa ‘credenza’. Ciò preannuncia per quale motivo nel cap. 6 Al-Bukhârî ricordi come in ragione dell’adhân ci si trattenga dal versar sangue: la Guerra santa si giustifica infatti solamente quando la trasmissione del Deposito sacro viene ostacolata ed infine impedita. I capitoli 7 e 8 sono poi dedicati a chi ascolta l’adhân: egli dovrà ripeterne le parole (tranne in occasione dei due inviti alla ‘preghiera’ ed al ‘successo’), quindi pronuncerà un’invocazione tradizionale. Di seguito si inizia a parlare dell’attuarsi vero e proprio dell’appello alla preghiera: nel cap. 9 si ricorda come l’eccellenza dell’adhân è tale che se gli uomini la conoscessero accorrerebbero per avere il privilegio di essere ‘muezzin’, e se non trovassero altro modo per scegliere chi tra loro fa l’adhân (se cioè le loro virtù si equivalessero) dovrebbero tirare a sorte. Il cap. 10 chiarisce che comunque l’adhân è differente dalla preghiera: è legittimo che durante l’appello alla preghiera venga pronunciata, da parte del muezzin o di chi lo sta ascoltando, qualche parola non strettamente rituale (e cioè non facente parte della formula tradizionale dell’adhân). L’esempio sacro dei due diversi adhân effettuati l’uno da Bilâl nell’ultimissima parte della notte, e l’altro dal cieco Ibn Umm Maktûm ai primissimi chiarori dell’aurora offre lo spunto per tre capitoli dedicati rispettivamente all’adhân annunciato da un cieco (cap. 11), all’appello alla preghiera effettuato dopo l’entrata del tempo della preghiera dell’alba (cap. 12) e a quello viceversa che ha luogo appena prima di essa (cap. 13). Nei tre capitoli seguenti viene considerato ciò che viene dopo l’adhân, e cioè il tempo che passa tra la fine di quest’ultimo e l’inizio del richiamo alla preghiera (iqâma), che precede immediatamente la salât: quale ne sia la durata, brevissima nel caso della preghiera del tramonto, come vediamo nel hd. 625 (cap. 14), più lunga nella preghiera dell’alba (cap. 15), pure è chiaro che si tratta di un momento di concentrazione, ragion per cui il Profeta dice che quanto v’è “tra le due chiamate è preghiera” (cap. 14 e 16). Il discorso propriamente dedicato all’adhân non sarebbe stato completo senza considerare infine due ulteriori questioni: quella dell’appello alla preghiera effettuato in viaggio (cap. 18), e quello della misura di quanto il muezzin si può distogliere dall’orientazione alla qibla mentre chiama a pregare (cap. 19). Quindi Al-Bukhârî prosegue con la sua argomentazione implicita, come chiedendosi: siamo al punto in cui l’adhân è stato compiuto, e gli uomini lo hanno ascoltato e stanno cercando di andare in moschea per pregare assieme all’Imam. Ecco che forse qualcuno non riesce ad arrivare in tempo, e perde in parte o del tutto la preghiera in comune: si pone dunque la questione (cap. 20) di sapere se si può usare una terminologia del tipo “ci è sfuggita la preghiera”, e soprattutto si chiarisce, nello stesso capitolo, che essendo anche la risposta all’adhân e la venuta alla preghiera cose prettamente ‘rituali’, è del tutto sconsigliato precipitarsi ad essa, mentre bisognerà recarvisi con ‘Quiete’ (ﺳﻜﻴﻨﺔsakîna); tale anche il tema del cap. 21, dove si fa notare che l’indicazione profetica a muoversi senza affrettarsi (e dunque con la sakîna) riguarda anche chi sente il ‘richiamo alla preghiera’ (iqâma), che precede immediatamente la salât. Questo apre anche la serie di capitoli dedicati più specificamente all’iqâma: nel cap. 22 si ricorda come non ci si alzi per pregare, una volta effettuata l’iqâma, se non in presenza dell’Imam. Il cap. 23 ribadisce che la ‘risposta’ all’iqâma necessita la ‘Quiete’. Nei capitoli seguenti si conclude il discorso sull’iqâma ricordando i motivi per cui l’Imam può ritardare la preghiera dopo di essa, e cioè per necessità proprie (cap. 24 e 25) e per necessità altrui (cap.27 e 28), mentre il cap. 26, dedicato alla preghiera che viene ‘persa’ a causa di un’aggressione esterna (nella fattispecie del hd. 641 l’aggressione a Medina da parte della ‘fazioni’ idolatriche, con la confrontazione militare detta ‘del Fossato’), viene inserito non perché contenga qualche riferimento all’iqâma, ma per inquadrare la tematica dei motivi che distraggono dall’effettuazione della preghiera in quella più generale degli accadimenti estremi per i quali l’azione rituale propriamente detta viene posticipata rispetto al suo tempo normale.
Un secondo gruppo di capitoli riguarda ciò che consegue logicamente ed anche praticamente all’iqâma, e cioè la preghiera in comune (جماعة giamâ‘a), il cui ‘riunirsi’ è appunto lo scopo prima dell’appello a pregare e poi dell’iqâma. Tale gruppo (che conta 52 capitoli) comprende a sua volta tre parti: una prima di 16 capitoli che riguarda la preghiera in comune vista in generale; una seconda che riguarda in modo particolare la funzione dell’Imam (26 capitoli), e una terza di 10 capitoli in cui si considera lo schierarsi dei credenti per ranghi. Vediamo nel dettaglio la prima parte (che va dal cap. 29 al cap. 44). Dopo aver ricordato da un lato come il fatto di riunirsi per la preghiera sia un obbligo tradizionale (cap. 29) e dall’altro l’eccellenza della preghiera in comune (cap. 30), Al-Bukhârî considera tale eccellenza in relazione alle diverse preghiere obbligatorie: la preghiera dell’alba (ma anche quella del pomeriggio avanzato, cap. 31), quella del mezzogiorno (cap. 32) e quella della notte (cap. 34); nello stesso tempo egli dedica un capitolo (il 33, ma implicitamente anche diversi hadith presenti nei cap. 30, 31 e 32) all’importanza dei ‘passi’ che si effettuano per andare a pregare alla moschea in risposta all’appello alla preghiera. Il cap. 35 riporta alcuni dati tradizionali dai quali si deduce che ‘due oranti’, e cioè l’Imam e chi lo segue, sono già una giamâ‘a, mentre il cap. 36 ricorda come sia la moschea il luogo d’eccellenza in cui effettuare la preghiera giamâ‘a, e il cap. 37 allude alle due andate diurne alla moschea, quella mattutina e quella pomeridiana, in sé differenti ma aventi analogo premio spirituale. Dopo il cap. 38, nel quale si chiarisce il fatto che dopo l’iqâma non vi deve essere altra preghiera che quella obbligatoria, inizia una serie di capitoli nei quali si parla, sulla base di diversi episodi della vita del Profeta, di quanto può trattenere dalla partecipazione alla preghiera in comune: la malattia (cap. 39, incentrato sui ‘limiti’ entro i quali è opportuno che un malato partecipi alla giamâ‘a), il maltempo (cap. 40), il fango e la grassezza (cap. 41, nel quale inoltre si considera il fatto che comunque l’Imam, nonostante l’esistenza di tali motivi di impedimento, fa la preghiera in comune assieme a chi c’è), e la presenza del cibo quando si deve mangiare (cap. 42). Infine abbiamo due capitoli che considerano dove sia necessario ‘distaccarsi’ dalle cose del mondo per recarsi alla preghiera in comune, e precisano quando ciò è compito dell’Imam (cap. 43) e quando invece sia compito di ogni credente (cap. 44).
Tale riferimento alla necessità di dedicarsi alle cose sacre ha anche il ruolo di introdurre al tema del seguente gruppo di capitoli (dal 45esimo al 70esimo), dedicato come dicevamo all’Imam e alla sua funzione. Il cap. 45 è dedicato a quando l’Imam prega solo per insegnare agli altri la preghiera del Profeta : il fatto che Al-Bukhârî inizi a parlare dell’Imam con questo capitolo è probabilmente un’allusione da una parte a come la preghiera dell’Imam sia effettuata anche e soprattutto per coloro che lo seguono, e dall’altra alla sua stretta aderenza alla preghiera profetica. Nel cap. 46 si spiega come la ‘Conoscenza’ (e principalmente quella ‘operativa’ rappresentata dalla recitazione del Corano) e l’‘Eccellenza’ (nel senso di ‘eminenza’) siano le prime qualificazioni per la scelta dell’Imam: il riferimento ripetuto nei 4 hadith del capitolo è ad Abû Bakr, incaricato dal Profeta di guidare la preghiera. Sempre all’esempio della preghiera effettuata, caso unico nell’Islam, con una guida in qualche modo congiunta del Profeta e di Abû Bakr si riferisce il cap. 47, dedicato a chi si mette di fianco all’Imam nella salât. Analoga la tematica del cap. 48, in cui si parla di chi guida la preghiera al posto dell’Imam, poi arriva quest’ultimo: la sua salât è valida, sia che retroceda sia che non retroceda. Nel cap. 49, in relazione implicita al cap. 46, si chiarisce che la principale qualificazione necessaria a chi guida la preghiera è la conoscenza del Corano, seguita (a parità della conoscenza della Sunna profetica) dall’anzianità. Nel cap. 50 si parla di come l’Imam che fa visita ad un certo gruppo di fedeli li guida nella preghiera, anche perché, come si ricorda lapidariamente nel cap. 51, “l’Imam non è stato stabilito se non affinché lo si segua”, ciò che tra l’altro richiama il principio secondo cui la preghiera, in ogni sua parola e in ogni suo gesto, si basa rigorosamente sull’obbedienza all’Imam. Seguono due capitoli dedicati a momenti particolari in cui si segue l’Imam nella preghiera: la prosternazione (cap. 52) e il rialzare la testa dopo l’inchino rituale e la prosternazione stessa (cap. 53). Abbiamo poi tre capitoli nei quali si studia la funzione di Imam esercitata da persone sulle quali si possono avere dubbi: nei casi dello schiavo, del liberto, del figlio dell’adultera e del beduino (di cui si parla nel cap. 54), tali dubbi non hanno fondamento tradizionale, perché se conoscono bene il Corano il loro ‘imamato’ è valido; nei casi invece dell’Imam che non porta a perfezione la preghiera (quando ad es. v’è qualcosa di immondo, ma celato, sulle sue vesti), di cui parla il cap. 55, e in quello dell’Imam che segue deviazioni o turbamenti (cap. 56), la sua preghiera potrebbe non essere valida, ma è valida quella di chi lo segue. La menzione di situazioni in cui l’Imam risulta inadempiente, o in cui è parzialmente deviato, e il fatto che chi lo segue non ne abbia alcun danno nella preghiera, richiama la questione di quale siano il ruolo e la posizione rispettivi dell’Imam e di chi lo segue (detto مأموم ma’mûm): nel cap. 57 viene dunque studiata la preghiera effettuata da soli due oranti, con riferimento (hd. 697) alla notte in cui Ibn ‘Abbâs si mise a pregare a sinistra del Profeta, e questi lo spostò alla propria destra. Nei due capitoli seguenti si considerano due questioni connesse a tale situazione: nel cap. 58 si osserva che la preghiera di entrambi, nonostante i diversi movimenti effettuati durante la salât per disporsi correttamente, risulta pienamente valida, mentre nel cap. 59 viene fatta risaltare la liceità per l’Imam di iniziare la preghiera da solo (e dunque senza avere intenzione di guidare nessuno), e quindi si aggiunge qualcun altro ed egli funge effettivamente da ‘Imam’. Segue nel cap. 60 la trattazione di un ‘cambiamento di intenzione’ diametralmente opposto: quello del ma’mûm che inizia la preghiera con l’intenzione di seguire l’Imam, poi per un valido motivo se ne stacca e termina la preghiera da solo; nel caso di specie riportato nel hd. 701 un uomo se ne va perché il suo Imam, Mu‘âdh ibn Giabal, stava recitando l’intera Sura della Vacca Sacrificale, e il Profeta biasima Mu‘âdh e dà ragione a quell’uomo. Di qui Al-Bukhârî trae spunto per una serie di capitoli aventi come tema l’‘alleggerimento’ della preghiera: nel cap. 61 si parla di come l’Imam alleggerisca in determinati casi la recitazione coranica (laddove nel cap. 62 si precisa che ciò accade nella preghiera in comune, perché se si prega soli si può tenere lunga la recitazione quanto si vuole); il cap. 63 è dedicato al fatto di lamentarsi perché l’Imam si dilunga eccessivamente nella recitazione, mentre il cap. 64 riguarda l’essere ‘concisi’ nella preghiera pur portandola a completezza, ciò di cui il Profeta diede esempio perfetto. Il cap. 65 infine conclude questa serie di capitoli dedicati all’alleggerimento della salât con il riferimento al Profeta (Imam perfetto) che sente il pianto di un bimbo e tiene corta la preghiera per non recare disturbo alla madre. Nel cap. 66 si richiama il hd. 700, ma questa volta ad essere posta in rilievo, ‘in positivo’, se così si può dire, è la preghiera che Mu‘âdh ripete due volte (e non il fatto che egli si fosse dilungato nella recitazione): in tal modo viene ad essere considerato il rapporto tra l’Imam ed una persona che lo segue, ma che viene egli stesso ad assumere il ruolo di Imam. Altri esempi di ‘partecipazione’ al ruolo di Imam li abbiamo nel cap. 67 (in cui si tratta di colui che, in particolari situazioni, fa sentire ai fedeli il تكبير takbîr dell’Imam, e cioè le parole الله اكبرAllahu akbar, che come vedremo aprono la preghiera, e di seguito ne segnano i principali momenti), nel cap. 68 (dove si considera il caso di qualcuno che segue l’Imam, e viene a sua volta seguito dai fedeli per tale motivo) e nel cap. 69 (dove si considera il caso di quando l’Imam compie un errore rituale e segue l’indicazione di chi lo segue, se gli fa sovvenire l’errore commesso). Nel cap. 70 infine si ricorda (sulla base degli esempi di Abû Bakr e di ‘Umar) la liceità del pianto dell’Imam durante la salât.
Col cap. 71 si apre la parte del Libro decimo dedicata allo schierarsi dei fedeli per ranghi dietro l’Imam, ed in generale a come essi si debbano disporre (ciò che riguarda 10 capitoli, dal 71esimo all’80esimo): il collegamento con quanto precede sta nel fatto che una volta chiarito (dottrinalmente e praticamente) quale sia il ruolo dell’Imam, si deve necessariamente passare a come sia (tanto interiormente quanto esteriormente) il ‘retto disporsi’ dei fedeli dietro di lui. Come prima cosa nel cap. 71 si considera l’‘allineamento dei ranghi’ (تسوية الصفوف taswiyatu s-sufûf) dei fedeli, in corrispondenza ed imitazione all’analogo allineamento dei ranghi angelici, mentre nel cap. 72 si ricorda come l’Imam prima di iniziare la preghiera si volti verso coloro che lo seguono per invitarli appunto ad allineare e ‘compattare’ di ranghi. Il cap. 73 è dedicato al primo rango degli oranti, ed alla sua straordinaria eccellenza, mentre il cap. 74 parla di come ‘innalzare il rango’ (اقامة الصف iqâmâtu s-saff) degli oranti, e cioè renderlo allineato e compatto, fa parte della bellezza, e dunque della perfezione, della preghiera. Nel cap. 75 si chiarisce come il ‘peccato di coloro che non portano a perfezione i ranghi’ consiste nella mancata conformità ad una pratica profetica. Il cap. 76 è dedicato all’obbligo tradizionale di ‘chiudere le fenditure’ tra un orante e l’altro nel rango. Di seguito si considerano due tipi particolari di ‘rango’: quello composto di sole due persone (l’Imam ed uno solo che lo segue, e che si deve porre alla sua destra, cap. 77), e quello composto da una donna sola (cap. 78). Infine, per completare il discorso relativo ai diversi modi in cui i fedeli si dispongono correttamente dietro l’Imam, si tratta dell’eccellenza della parte destra della moschea (cap. 79, in relazione evidente col cap. 77), e dei vari casi in cui l’Imam risulta separato in qualche modo da chi lo segue (cap. 80). Qui si chiude la prima parte del Libro decimo del Sahîh.
La seconda parte (che consta di 85 capitoli, dall’81esimo sino alla fine) riguarda la modalità con cui effettuare la preghiera. Del resto, era perfettamente logico che Al-Bukhârî a questo punto si occupasse della salât nei particolari del suo attuarsi, in quanto dopo che è stato effettuato l’appello alla preghiera e i fedeli si sono riuniti in moschea per la preghiera in comune (ciò che è stato studiato nei primi 80 capitoli), ora in effetti inizia la salât. Nei primi sei capitoli si considera l’inizio della preghiera: si comincia (cap. 81) con la pronuncia delle paroleاللهاكبرAllahu akbar (‘Allah è più Grande’, ciò che è detto تكبير takbîr) da parte dell’Imam e di chi lo segue, quando entrano in ‘stato sacrale’; nel cap. 82 si prosegue parlando del gesto di alzare la mani, che accompagna il takbîr iniziale ma anche altri momenti della preghiera (cap. 83 e 85), laddove nel cap. 84 si chiarisce sino a quale altezza arriva tale gesto (e cioè all’altezza delle spalle, o delle orecchie ecc.). Dopo avere alzato le mani in occasione del takbîr, l’orante pone la destra sulla sinistra (cap. 86). Questi primi 6 capitoli costituiscono come la parte iniziale di una ‘cornice’ disposta a contenere i capitoli dedicati propriamente al succedersi dei vari momenti della preghiera: ad essi risponderanno, quasi a chiudere tale cornice, i tre capitoli 151-153 nei quali si parlerà della chiusura della preghiera con il saluto finale. D’altra parte, il cap. 87, dedicato all’‘umile concentrazione’ (خشوع khushû‘) necessaria nella preghiera (e della quale il porre la destra sulla sinistra è uno dei segni), è come un’introduzione a tale parte ‘centrale’ dei capitoli riguardanti le caratteristiche della preghiera: ad esso risponderà come vedremo il cap. 150, posto a sigillare tale parte, come a dire che essa è basata sull’umile concentrazione da una parte e sull’espressione della condizione di servo ‘fatto di acqua e di argilla’ dall’altra.
Immediatamente dopo il takbîr l’orante è bene che pronunci un’invocazione, nella quale chiede a Dio di metter distanza rispetto ai propri errori e di purificarlo, in modo da accedere alla Prossimità a Lui (cap. 88), e nel cap. 89 si menzionano delle ‘visioni’ ultramondane avute dal Profeta, visioni impensabili in mancanza di uno stato di purificazione e di Prossimità ad Allah. Dal momento che in corrispondenza con queste visioni, ed in particolare nelle visioni del Fuoco infernale avute durante la preghiera, l’Inviato di Allah viene visto retrocedere, nel cap. 90 si considerano diversi casi in cui i Compagni del Profeta ‘alzavano lo sguardo verso di lui’, ciò che rimanda alla questione di come sia lecito per chi segue l’Imam volgere a lui lo sguardo. Ma se volgere lo sguardo verso l’Imam è legittimo, non si può dire lo stesso dell’alzare lo sguardo al Cielo nella salât: nel cap. 91 si considera infatti tale gesto riprovevole ad anche spiritualmente pericoloso, nonché contraddittorio dell’‘umile concentrazione’ richiesta nella preghiera. Un altro gesto irrituale che contraddice l’umile concentrazione è il fatto di volgersi a destra e a manca durante la preghiera: di ciò si occupa il cap. 92, mentre il cap. 93 si occupa a sua volta di chiarire quando possono esservi delle eccezioni, di modo che il volgersi a destra o a sinistra diviene accettabile.
Dal cap. 94 (per un totale di 16 capitoli, sino al cap. 109) si inizia a considerare la preghiera nel suo attuarsi vero e proprio, a cominciare dalla recitazione coranica. Nel cap. 94 si afferma l’obbligatorietà assoluta di recitare il Corano nella salât. Seguono i capitoli dedicati alla recitazione del Corano nelle singole preghiere: quella del mezzogiorno (ظهر zuhr, cap. 95); quella del pomeriggio avanzato (عصر ‘asr, cap. 96); quella del tramonto (مغربmagrib, cap. 97), laddove nel cap. 98 si chiarisce come al magrib il Corano sia da recitare ad alta voce. Alla recitazione nella preghiera della notte (عشاء‘ishâ) sono dedicati tre capitoli: nel cap. 99 si conferma che si tratta di una recitazione ad alta voce, nel cap. 100 si ricorda come sia lecito recitare, durante la preghiera della notte, una Sura o un brano coranico comprendenti un passaggio che richiede la ‘prosternazione dovuta alla recitazione’, mentre il cap. 101 si parla in generale, ma con riferimento specifico alla Sura del Fico, della recitazione dell’‘ishâ con bellissima voce. A ‘sigillo’ dei capitoli dedicati alle quattro preghiere d’obbligo che hanno più di due rak‘a (e cioè quelle del mezzogiorno, del pomeriggio avanzato, del tramonto e della notte), il cap. 102 fa notare il fatto che la recitazione delle prime due rak‘a sia più prolungata di quella delle rak‘a restanti. Di seguito si parla della recitazione nella preghiera dell’alba (cap. 103) e del fatto che essa sia effettuata ad alta voce (cap. 104), concludendo così i capitoli dedicati alla recitazione coranica effettuata nelle singole preghiere. Nel cap. 105 sono raccolte le principali indicazioni tradizionali riguardanti varie possibilità che si possono presentare nella recitazione coranica che ha luogo durante le prime due rak‘a delle varie preghiere (e cioè che in una sola rak‘a si riunisca la recitazione di due diverse Sure, che si reciti la parte finale di una Sura, che si reciti una Sura che viene dopo nella disposizione del Testo coranico prima di un’altra che in esso precede, che si reciti l’inizio di una Sura, ed altre ancora); nel cap. 106 viceversa si ricorda come nelle rak‘a che eccedono le prime due si reciti solamente la Sura Aprente. Nel cap. 107 si ribadisce come nelle due preghiere diurne del mezzogiorno e del pomeriggio avanzato si recita a voce appena udibile da parte dell’orante stesso, benché in certi casi sia legittimo per l’Imam far udire agli altri, in queste preghiere, qualcosa della sua recitazione (cap. 108). Nel cap. 109 infine si chiarisce come il Profeta prolungasse la recitazione nella prima rak‘a, specialmente nelle preghiere dell’alba e del mezzogiorno. Terminati i 16 capitoli riguardanti la recitazione coranica nella preghiera, Al-Bukhârî considera un argomento strettamente correlato, quello della pronuncia durante la salât della parola آمينÂmîn, che non fa parte propriamente del Corano, al termine della Sura Aprente: si tratta di tre capitoli che costituiscono un insieme perfettamente costituito, con al centro (cap. 111) il ‘nocciolo’ rappresentato dalla considerazione dell’‘eccellenza’ della Parola sacra Âmîn presa in sé, preceduto e seguito questo aspetto ‘centrale’ ed ‘essenziale’ dai due capitoli riguardanti la relativa applicazione rituale quale è specificamente richiesta nella preghiera, rispettivamente da parte dell’Imam (cap. 110) e di chi lo segue (cap. 112).
Dopo aver parlato della recitazione coranica nella preghiera (con l’appendice dedicata alla pronuncia di Âmîn al termine della Sura Aprente), Al-Bukhârî inizia la sezione del Libro decimo del Sahîh, di 14 capitoli (dal 113esimo al 126esimo, due dei quali sono però una parentesi avente altro argomento, come si vedrà tra poco), dedicata a ciò che segue durante la salât, e cioè l’inchino rituale (ركوع ru-kû‘). Si comincia con il cap. 113, in cui si parla del caso di chi fa il rukû‘ senza essere nel rango degli oranti (cosa sconsigliabile, in quanto si perde la بركةbaraka consistente nello ‘schieramento per ranghi’ degli oranti, di origine angelica), mentre nel cap. 114 si considera di ‘portare a perfezione’ la pronuncia del takbîr quando si scende in posizione inchinata. Questo argomento giustifica la digressione di Al-Bukhârî nei capitoli seguenti, dedicati al portare a perfezione il takbîr durante la prosternazione (cap. 115) e quando ci si leva da essa (cap. 116). Nel cap. 117 si torna a parlare del rukû‘, laddove dopo la pronuncia del takbîr che segue il movimento discendente del tronco si mettono le mani sulle ginocchia. Ora si è in posizione inchinata: nel cap. 118 si parla di chi non porta a perfezione l’inchino, in particolare non restando almeno un poco in tale posizione; nel cap. 119 si chiarisce che nel rukû‘ la schiena deve essere diritta in orizzontale; il cap. 120 riguarda l’indicazione tradizionale di rimanere un poco in quiete tanto nell’inchino quanto nel momento in cui si torna in posizione eretta dopo di esso, ciò che è obbligatorio, in quanto il Profeta fece ripetere la preghiera ad un fedele che non aveva portato a perfezione il rukû‘, e cioè non era restato almeno un po’ in quiete (cap. 121); il cap. 122 riguarda l’invocazione da rivolgere durante l’inchino. È terminato l’inchino rituale, e il cap. 123 riferisce di quanto dicono l’Imam e coloro che lo seguono rialzando la testa da esso: si tratta delle espressioni سمع الله لمن حمده sami‘a Allahu li man hamida-h (‘Allah ascolta colui che Lo loda’) e اللهم ربن و لك الحمد AllahummaRabba-nâ wa la-ka l-hamd (‘Allahumma, o nostro Signore! E a Te spetta la Lode’), la cui eccellenza viene studiata nel cap. 124. Il cap. 125 chiarisce che l’orante, dopo esser tornato in posizione eretta ed avere pronunciato le due espressioni appena citate, può pronunciare anche altre invocazioni tradizionali, tra le quali quelle definite قنوت qunût; è comunque una sunna restare un poco in quiete, almeno sino a che ‘ogni vertebra sia ritornata al suo posto’ in posizione eretta (cap. 126).
Quindi si ‘discende’ nella prosternazione (سجودsugiûd) pronunciando il takbîr (cap. 127): ed alla prosternazione sono dedicati 14 capitoli (dal 127esimo al 140esimo). Nel cap. 128 si parla dell’eccellenza della prosternazione, con riferimento al hadith in cui si afferma tra l’altro che il fuoco infernale non divora il ‘segno’ del sugiûd. Quando si è prosternati, le braccia devono risultare distanziate dai fianchi (cap. 129), e tutto l’essere, sinanche le dita dei piedi, deve essere orientato alla قبلة qibla, la direzione rituale (cap. 130). Nel cap. 131 si ricorda che chi non porta a perfezione il sugiûd (in special modo restando un poco in quiete in esso) non si conforma alla sunna profetica. Nel cap. 132 si chiarisce che il sugiûd deve essere su ‘sette ossa’, e cioè sette membra del corpo: i piedi, le ginocchia, le mani e la fronte (e si deve intendere anche il naso, come si mostra nel cap. 133, mentre nel cap. 134 si parla di come il Profeta si sia prosternato con il naso e la fronte nell’argilla mischiata all’acqua, per la pioggia). Un altro problema che si pone nella prosternazione ‘su sette ossa’ è quando i vestiti a disposizione non sono sufficienti a coprire adeguatamente: in tale caso di necessità è consentito aggrupparli o stringerli a sé in qualche modo in maniera da coprire almeno le nudità (cap. 135); questo in deroga al principio che prevede che abiti e capelli dell’uomo non vengano tenuti raccolti (capitoli 136 e 137): anch’essi infatti si devono di norma prosternare ‘liberamente’. Nel cap. 138 si parla del Ricordo di Allah (ذكرdhikr) e dell’invocazione (دعاء du‘â) da effettuare quando si è prosternati. Ognuna delle rak‘a di cui è composta la preghiera islamica prevede due prosternazioni: la prima è terminata, e non si effettuerà la seconda senza essere stati un poco in quiete in posizione seduta (cap. 139). Nella postura della prosternazione, ci si curerà di non distendere le braccia sul terreno, come fanno i cani e certi animali selvatici (cap. 140).
Il movimento di prosternazione è terminato, e di seguito si considera come ci si rialza da esso: al termine della prima e della terza rak‘a (e cioè appena compiute le relative prosternazioni), prima di rialzarsi molti seguono l’indicazione tradizionale riportata da Al-Bukhârî nel cap. 141, e stanno un poco seduti; nel rialzarsi da qualsiasi rak‘a si chiarisce comunque (cap. 142) che si ‘fa forza’ sul terreno con le mani, e nel cap. 143 si ricorda che il movimento di risalita va accompagnato dal takbîr (sempre al termine della prima rak‘a, nonché della terza, nelle preghiere che la contemplano e nelle quali essa non è l’ultima rak‘a). Ma la conclusione della prosternazione non è sempre seguita da un ‘rialzarsi’: non v’è alcuna divergenza di opinioni sul fatto che al termine della seconda rak‘a (come anche dell’ultima rak‘a, nelle preghiere che hanno più di due rak‘a) si debba stare seduti a pronunciare la formula detta تشهد tashahhud (letteralmente ‘testimonianza’). Nel cap. 144 si parla del modo particolare in cui stare seduti, ciò che è seguito da alcuni capitoli dedicati in particolare al tashahhud: nel cap. 145 si ricorda il carattere non rigorosamente obbligatorio del primo dei due tashahhud, la cui dimenticanza deve comunque essere sanata con le due prosternazioni di riparazione rituale (essendo tale primo tashahhud prescritto nella sunna profetica, come ribadito nel cap. 146), e nel cap. 147 si parla dell’ultimo tashahhud, e se ne menziona il testo (del quale presentiamo il commento ibnarabiano e ricordiamo le principali varianti). Dopo aver pronunciato l’ultimo tashahhud l’orante può pronunciare delle invocazioni, delle quali nel cap. 148 si presentano diversi esempi risalenti al Profeta , mentre nel cap. 149 si ricorda che il Profeta stesso invitava l’orante a scegliere “l’invocazione che più gli piace”.
Siamo nella parte conclusiva della preghiera, ma prima di parlare del saluto di Pace finale, Al-Bukhârî dedica un capitolo (il 150) a colui che non si sfrega il viso per rimuovere eventuali tracce di polvere, terra, acqua ecc. prima di aver terminato la preghiera: infatti la salât che sta finendo è espressione rituale della condizione di servo, e il servo è stato creato ‘tra l’acqua e l’argilla’. Come s’è detto abbiamo il compiersi della ‘cornice’ che s’era aperta nel cap. 81 e che comprende in sé tutti gli aspetti che propriamente fanno parte della salât: seguono infatti tre capitoli sul saluto di Pace as-salâmu ‘alay-kum, ‘la Pace su di voi’, che è obbligatorio secondo i più per uscire dallo stato sacrale della preghiera: nel cap. 151 esso viene considerato in generale, nel cap. 152 si osserva che chi segue l’Imam pronuncia il saluto appena dopo di lui, mentre nel cap. 153 ricorda come tale saluto non sia una ‘risposta’ al saluto dell’Imam.
Benché la preghiera sia propriamente terminata, secondo quanto si desume dal hd. 852 anche ciò che la segue immediatamente è anch’esso salât. Abbiamo così cinque capitoli che fanno ancora parte in senso lato delle ‘caratteristiche della preghiera’, pur riguardando quanto viene dopo di essa: il cap. 154 è dedicato in generale alle espressioni di Ricordo di Allah (ذكرdhikr) che si pronunciano dopo la preghiera; nel cap. 155 si ricorda come terminata la salât l’Imam a volte si volge verso i credenti; nel cap. 156 si parla del permanere dell’Imam, in tale frangente, nel punto in cui ha pregato, mentre il cap. 157 considera viceversa i casi in cui in ragione di qualche impegno l’Imam se ne va immediatamente dopo la salât, e nel cap. 158 si chiarisce che ci si muoverà dalla posizione in cui si ha pregato dirigendosi sia verso destra che verso sinistra. Si fermano propriamente qui i capitoli dedicati alla ‘modalità della preghiera’, intesi come intellezione dei suoi vari aspetti rituali visti nella loro successione.
Nei cap. seguenti infatti, sino al termine del Libro decimo, la preghiera non è più considerata in riferimento ai successivi momenti rituali che la costituiscono, ma a determinate condizioni proprie della salât in comune: il fatto che non è opportuno recarsi in moschea quando si mangiano aglio, cipolla e simili (cap. 159), quindi la presenza degli impuberi (cap. 160) e delle donne; il cap. 161 parla di come esse escano di casa per andare in moschea la notte e nelle tenebre che precedono l’alba; il cap. 162 ricorda come la salât delle donne sia dietro ai ranghi degli uomini; nel cap. 163 ricorda a sua volta l’andarsene veloce delle donne dalla preghiera dell’alba; il cap. 164 è dedicato al fatto che le donne debbono chiedere il permesso agli uomini per uscire di casa; il cap. 165 infine ribadisce il tema del cap. 162.
Ha così termine, in un numero di capitoli con ogni probabilità non casuale (165, dei cui simbolismi parliamo nel commento al capitolo finale), il tessuto del Libro decimo del Sahîh, abilmente ricamato da Al-Bukhârî : in esso risalta come perla ineguagliabile l’Esempio profetico, Fonte sacra da cui sgorga la Dottrina che si dipana nel testo (come abbiamo cercato di chiarire), e Sunna su cui si basano gli aspetti rituali via via mostrati, ed alla quale i credenti sono chiamati a conformarsi nella misura del possibile.
INDICE GENERALE - Libro decimo: Dell’appello alla preghiera. Introduzione al Libro decimo. Cap. 1, sull’inizio dell’appello alla preghiera (seguono 80 capitoli). Capitoli sulla modalità della preghiera (da cap. 81 a cap. 165). Indice dei termini arabi. Indice analitico. Indice dei versetti del Corano. Indice degli hadith tratti dal Sahîh di Al-Bukhârî.Indice degli hadith tratti dal Sahîh di Muslim. Indice delle citazioni dalle Futûhât di Ibn ‘Arabî.
Si tramanda da Abû Hurayra: “L’Inviato di Allah parlò del Venerdì, e disse: ‘V’è di Venerdì un’ora tale che nessun servo musulmano si accorda ad essa mentre è ritto in preghiera e chiede qualche cosa ad Allah, senza che Allah gliela conceda.’ E fece un cenno con la mano, ad indicare quanto fosse breve.”
Al-Bukhârî, Muhammad ibn Ismâ‘îl: Il Sahîh, ovvero ‘La giustissima sintesi’. I Libri riguardanti la preghiera: terza parte Campegine (RE) 2022, Edizioni ‘Orientamento/Al-Qibla’, 184 pagg., € 18,00 - ISBN 9788889795316
(Dall'Introduzione ai Libri undicesimo e dodicesimo)
Come dicevamo a più riprese introducendo i precedenti Libri del Sahîh, questi ultimi sono posti in una successione logica del tutto esatta e perfettamente comprensibile: abbiamo infatti i Libri primo, secondo e terzo (la cui traduzione commentata costituisce il primo dei volumi da noi dedicati al testo di Al-Bukhârî, Il Sahîh. I Libri introduttivi), che riguardano rispettivamente l’ispirazione muhammadiana, da cui procede la Tradizione islamica nel suo complesso, la ‘Fede’ in quanto aspetto operativo essenziale dell’Islam, e la ‘Conoscenza’ sacra come elemento fondante dell’edificio tradizionale islamico. Di seguito si inizia a parlare dell’attività ‘rituale’ (e dunque in primis del rito della preghiera, صلاة salât), come conformità all’Ordine divino e Orientamento principiale, che esplicita quanto era implicito nella Fede e nella Conoscenza; alla preghiera vengono dedicati sedici Libri del Sahîh (dall’ottavo al ventitreesimo). Abbiamo inizialmente i quattro Libri (e dunque quarto, quinto, sesto e settimo) dedicati alle varie modalità con le quali il fedele si ‘purifica’ per accedere al rito, da noi raccolti nel volume IlSahîh. I Libri riguardanti la purificazione rituale. Quindi nel Libro ottavo di cui è composto il Sahîh si parla delle condizioni preliminari della preghiera (ed in particolare della moschea e dell’orientazione dell’orante verso la قبلة qibla), e nel Libro nono degli ‘orari della preghiera’: questi due Libri ottavo e nono sono compresi nel nostro volume intitolato Il Sahîh. I Libri riguardanti la preghiera (prima parte). Il Libro decimo è dedicato all’‘appello alla preghiera (اذان adhân)’: in realtà in esso si parte dalla considerazione dell’adhân per poi andare come a rispondere implicitamente alla seguente domanda: cosa accade in conseguenza dell’appello alla preghiera? Ecco che viene studiato nel dettaglio l’attuarsi di ciò che segue ad un tale appello, e cioè il radunarsi dei fedeli dietro l’Imam e l’effettuazione della salât. Seguono ora i due Libri 11 e 12, oggetto di questo nostro quinto volume dedicato al Sahîh, e accomunati dal fatto di esser dedicati rispettivamente agli unici due tipi di preghiere che sostituiscono validamente, in casi ben determinati, la salât d’obbligo, pur essendo effettuate in modo molto differente: la preghiera del Venerdì, e la preghiera cosiddetta ‘della paura’, che si effettua principalmente in guerra.
Presentazione del Libro undicesimo Il Libro 11, sulla preghiera del Venerdì (كتاب الجمعة kitâbu l-giumu‘a, laddove la parola giumu‘a indica sia il Venerdì che la preghiera particolare che si svolge in tale giornata), inizia (cap. 1) con la menzione dell’ordine coranico, contenuto nel versetto 9 della 62esima Sura, di affrettarsi «al Ricordo di Allah», e di lasciare «ogni compravendita» quando si viene chiamati alla preghiera «del giorno di Venerdì», ciò che mostra il carattere obbligatorio della preghiera del giumu‘a, che risulta da un ordine di Dio. Nel testo del hd. 876 è detto che i Musulmani sono ‘gli ultimi-i predecessori’, il Giorno della Resurrezione, ciò che è vero anche a riguardo del giumu‘a: ‘gli ultimi’ come ultima Comunità tradizionale, e ‘i predecessori’ perché l’istituzione del Venerdì in quanto giorno caratterizzato da particolare sacralità nella settimana è primordiale e ‘precedente’ per essenza (di modo che non è considerato casuale il fatto che venga prima del Sabato e della Domenica). Il Venerdì infatti è il giorno in cui, secondo il Profeta “fu riunito” nostro padre Adamo, e d’altra parte nella ‘Storia sacra’ esso può essere visto sia come stabilito dai Quraysh (la ‘casta sacerdotale’ araba) prima dell’Islam, sia come praticato dai Musulmani di Medina prima dell’arrivo del Profeta, sia come conseguenza di un ordine profetico. In altre parole, al pari dell’Islam stesso che è al tempo stesso nuovissimo e primordiale, storicamente determinato e senza tempo, fondato in ogni cosa sull’ispirazione del Profeta e continuamente rinnovato dall’intuizione intellettuale dei suoi santi Eredi, l’istituzione del giumu‘a non a caso è descritta come propriamente islamica e nello stesso momento ancestrale e condivisa in linea di principio dalle altre Tradizioni sacre, ordinata dall’Inviato di Allah e ‘intuita’ dai primi credenti medinesi; di qui rileva l‘obbligatorietà’ (nel senso intellettuale più che in quello prescrittivo) della sacralizzazione del Venerdì e della preghiera comunitaria che si svolge in tale giorno (obbligatorietà cui è dedicato il cap. 1). Nel cap. 2, Al-Bukhari lega per così dire il tema della mancata ‘obbligatorietà’ per alcune categorie, come le donne e i ragazzi, della partecipazione al giumu‘a all’eccellenza dell’abluzione maggiore (غسل gusl) effettuata in tale giorno (e ad esso legata in modo del tutto particolare) ed in vista della preghiera comunitaria: il fatto che permanga l’eccellenza del gusl anche per donne e ragazzi mostra come qui non si stia parlando di obblighi nel senso prescrittivo ma di istituzioni di Grazia cui è implicito un divino Favore che l’uomo deve sforzarsi di cogliere.
Segue una ‘sezione’ del libro undicesimo composta da sei capitoli (3-8), sezione nella quale si richiamano particolari aspetti di ‘eccellenza’ propri del credente che partecipa al giumu‘a conformemente all’esempio profetico: dell’uso del profumo (cap. 3) e degli unguenti (cap. 5), la consapevolezza dell’aspetto sacrificale della partecipazione rituale al Venerdì (cap. 4), l’indossare gli abiti migliori (cap. 6), il tener costantemente puliti i denti e il cavo orale (cap. 7 e 8). Anche qui non si tratta di cose rigorosamente obbligatorie, ma di aspetti, come dicevamo, di eccellenza, senza i quali non si giunge ad una comprensione profonda del giumu‘a né si gode interamente dei suoi aspetti di Grazia. Di seguito inizia la seconda parte di questo Libro undicesimo, nella quale lo sviluppo dei capitoli assume un andamento ‘cronologico’, nel senso che si segue in linea di massima un percorso ideale che va dall’alba del Venerdì sino alla conclusione della preghiera comunitaria, che evidentemente è il centro rituale di questa giornata. Il cap. 9 infatti, se da una parte allude evidentemente all’inizio di quella parte del Venerdì che è incentrata sulla preghiera del giumu‘a, dall’altra fa in un certo senso da cerniera rispetto a quanto precede, dal momento che la recitazione di determinate Sure e l’attingere all’Influenza spirituale ( بركة baraka) del Corano sono cose che fan parte di quegli aspetti di eccellenza che si sono considerati nei precedenti cap. 3-8. Dal momento che dopo la preghiera dell’alba inizia il tempo in cui ci si può muovere per recarsi alla moschea, ecco che segue una serie di quattro capitoli (10-13) nei quali si considera in particolare dove si sia tenuti ad effettuare il giumu‘a (cap. 10), quando la distanza dalla moschea (cap. 13) o certe circostanze esteriori (cap. 12) fanno decadere l’obbligo della partecipazione alla preghiera comunitaria, e chi è tenuto a prepararsi al giumu‘a facendo l’abluzione maggiore (cap. 11). In tre di questi capitoli si allude poi ad aspetti dottrinali particolari, ma di grande rilevanza per il tema del Libro undicesimo: nel cap. 10 la liceità di effettuare il giumu‘a dovunque (e non solo nei grossi centri) rimanda al tema della responsabilità dell’Imam nei confronti di chi lo segue, aspetto della catena di responsabilità che tiene in piedi il consorzio umano da ogni punto di vista (ciò di cui parla il hd. 893); nel cap. 11 si chiarisce come l’abluzione maggiore (gusl) debba essere effettuata per il giorno stesso del Venerdì, in ragione della sua baraka; nel cap. 13 infine l’argomento della ‘distanza dalla moschea’ richiama il tema di quando sia veramente necessario muoversi per realizzare la Sintesi (جمع giam‘, dalla stessa radice di giumu‘a) in Allah, sfuggendo alla molteplicità.
Di seguito, nella disposizione ‘cronologica’ proposta da Al-Bukhârî, dopo la localizzazione del giumu‘a e la preparazione ad esso con l’abluzione maggiore, non si può non considerare il tempo della preghiera del Venerdì. Abbiamo a questo proposito due capitoli: il primo (14) in cui si considerano le diverse opinioni sul fatto di iniziare la preghiera del Venerdì prima o dopo il passaggio del sole allo zenit (da cui i diversi simbolismi legati alle due prospettive), e il secondo (15) in cui parlando di “quando fa caldo di Venerdì”, Al-Bukhari, più che soffermarsi al tema dell’eventuale posticipazione del giumu‘a in ragione del caldo (ciò che in realtà non è affatto attestato), presenta un’argomentazione di ordine principalmente simbolico, nella quale il riferimento implicito alla storia del drammatico confronto tra Anas e il principe Al-Hakam richiama allusivamente il caso di quando si scatena la vampa dell’ignoranza, dell’oppressione o comunque del turbamento nella Religione, il che non può non avere un riflesso diretto nel giumu‘a stesso, principale rito comunitario dell’Islam. Segue logicamente il cap. 16, sul ‘camminare’ per recarsi al giumu‘a, in riferimento all’indicazione presente nel v. LXII, 9: «O voi che avete Fede: quando viene chiamato alla preghiera del giorno di Venerdì, affrettatevi al Ricordo di Allah», laddove tale ‘affrettarsi’ è inteso tradizionalmente come un camminare appunto, pieno di Quiete e di concentrazione in Allah, lasciando ogni altra occupazione. Si giunge dunque alla moschea e la prima indicazione è quella di “non separare” tra loro due credenti seduti fianco a fianco; se ‘frapporsi’ in un modo qualunque tra due persone affiancate è un atto che si considera in generale biasimevole per il fatto che evoca direttamente il ‘crear dis-cordia’ e ‘dis-unione’, esso assume un carattere particolarmente nefasto nell’ambito rituale, dove costituisce l’esatto contrario delle indicazioni relative al ‘portare Unità’, ed a maggior ragione nel giumu‘a, perché nella prima parte del rito comunitario del Venerdì, quando l’Imam inizia la خطبة khutba l’Unità è rappresentata non dai ‘ranghi allineati e compatti’, ma dai credenti seduti fianco a fianco. Si potrebbe così ritenere che, al di là della disposizione ‘cronologica’ di cui stiamo parlando, i tre capitoli dal 15 al 17 abbiano una loro omogeneità di ordine simbolico: infatti al capitolo 15 (che è relativo a quanto si mette in atto nel momento in cui “di Venerdì si fa intenso il caldo”, il che come si diceva allude al ‘caldo’ dell’ignoranza, dell’oppressione e dello spirito profano), seguono l’indicazione contenuta nel cap. 16 (‘camminare’ con Quiete verso la moschea) e soprattutto quella contenuta in questo cap. 17 (non produrre disunione), che paiono entrambe come una risposta all’esigenza di ‘portare’ il giumu‘a ‘verso il fresco’ dell’Unità e della Conoscenza.
Dopo il cap. 18, in cui si tratta dell’indicazione di non far alzare un credente seduto in moschea per sedere al suo posto, siamo oramai seduti dentro la moschea: è il tempo di parlare dell’appello alla preghiera (اذان adhân) per la preghiera del Venerdì, e ad esso sono dedicati 5 capitoli (dal 19 al 23), laddove, a parte il ‘corollario’ rappresentato dal cap. 20 (dove si parla del numero di muezzin che fanno l’appello alla preghiera), il tema centrale, affrontato come da diverse angolature, è quello del carattere eccezionale dell’adhân del giumu‘a, il cui tempo non è scandito dalla posizione del sole, come nel caso degli appelli alla preghiera effettuati per le normali preghiere obbligatorie, ma dal fatto che l’Imam entri in moschea e si sieda sul pulpito attendendo di pronunciare il sermone: nel cap. 19 si rende conto esplicitamente di questo fatto, nel cap. 21 si parla di come anche l’Imam ripeta le frasi dell’adhân, nel cap. 22 si ribadisce che l’adhân inizia quando l’Imam si siede sul pulpito, e il cap. 23 si sofferma sulla contiguità tra l’adhân e il sermone, che inizia immediatamente dopo. E la funzione del cap. 23 è anche quella di annunciare un’altra sezione del Libro undicesimo: quella relativa appunto al sermone, che conta 11 capitoli, dal 24 al 34. In essa vengono studiate la funzione e la posizione dell’Imam (cap. 24, si avvale di un pulpito, cap. 25 deve rivolgere il sermone in piedi, cap. 28 siede tra le due parti del sermone, cap. 32 distende le mani nell’invocazione), il sermone stesso (خطبة khutba, cap. 27 sua suddivisione in un prologo e in un’argomentazione, e vari esempi di khutba profetica, cap. 33 può consistere nella richiesta di pioggia), e come devono comportarsi i fedeli (cap. 26 sono rivolti all’Imam, cap. 29 ascoltano il sermone con attenzione, cap. 34 stanno in silenzio, cap. 30 e 31 cosa devono fare quando arrivano a sermone già iniziato); tale un’esposizione riassuntiva della sezione riguardante il sermone, i cui aspetti più sottili sono da cercare nel commento ai vari capitoli che la compongono. Di seguito, il cap. 35 (riguardante quella certa ‘ora’ del Venerdì in cui vien risposto al ‘servo musulmano che si accorda ad essa mentre è ritto in preghiera e chiede qualcosa ad Allah’) ha una posizione nel Libro undicesimo che corrisponde curiosamente a quella che tale ora avrebbe nella giornata del Venerdì secondo una delle opinioni più affidabili, nel senso che se si ritiene il Libro 11 disposto cronologicamente, e se si stabilisce una stretta corrispondenza tra i capitoli e le ore della parte diurna del Venerdì, vediamo questo capitolo corrispondere esattamente al momento immediatamente seguente alla preghiera del pomeriggio avanzato: tale la sottigliezza di Al-Bukhari!
Segue la sezione finale del Libro undicesimo: nel cap. 36 abbiamo l’esemplificazione di come il termine del rito del giumu‘a e il ritorno dei fedeli alle loro occupazioni non sia assolutamente da confondere con un ritorno al modo di vedere profano: coloro che abbandonano il Profeta che sta pronunciando il sermone per andare a vedere una carovana che sta giungendo a Medina sono certamente biasimati, mentre i 12 Compagni che restano permettono che non si scateni l’ira divina. Nel cap. 37 si parla delle preghiere surerogatorie da effettuare dopo il giumu‘a (oltre che prima di esso), mentre nel cap. 38 la menzione del hadith in cui i Compagni del Profeta r i quali, terminato il giumu‘a, si soffermano a mangiare la zuppa offerta da una donna, richiama il fatto che nelle Parole «E quando la preghiera» del Venerdì «è terminata, spargetevi sulla terra e cercate del Favore di Allah», la ricerca di cui si parla non è propriamente ‘terrena’, o ‘profana’, dal momento che, purificato quanto meno virtualmente dalla partecipazione al giumu‘a, il credente vede ora in ogni sua attività una ricerca del Favore divino, ivi compreso il riposo (dal momento che con esso cessa ogni ‘attività’ propria dell’individualità umana, mentre permane quella divina), cui è dedicato il cap. 39, che costituisce il sigillo del Libro undicesimo, in contraltare, si potrebbe dire, al suo inizio, dal momento che nel cap. 1 si parlava della ‘chiamata’ al giumu‘a, ciò che imponeva di destarsi da fiacchezza e dimenticanza per recarsi a pregare.
Presentazione del Libro dodicesimo
Per dirla con le parole di Al-‘Asqalânî, “la menzione della preghiera della paura”, quella cioè effettuata in guerra con il timore del nemico, e la dedica ad essa del Libro 12 del Sahîh, “segue dappresso la menzione della preghiera del Venerdì”, cui è dedicato il Libro 11, “perché si tratta in entrambi i casi di preghiere” obbligatorie, che entrano dunque a far parte “del novero delle cinque preghiere giornaliere. E tuttavia, entrambe sono svolte in maniera differente rispetto alle altre,” laddove si inizia con la preghiera del Venerdì, non così dissimile dalle preghiere comuni, e si continua con quella della paura, le cui modalità sono molto diverse da quelle delle altre preghiere, specie quando la paura del nemico è molto intensa. Nel cap. 1 per prima cosa Al-Bukhârî menziona i versetti coranici 101-2 della quarta Sura, nei quali si descrive per sommi capi la preghiera da effettuare quando è imminente il combattimento: questo ad attestare l’origine divina della disposizione del tutto particolare riguardante tale preghiera (anche se poi la sua forma specifica si desume dalla sunna profetica). Dopo di che egli presenta il hadith 942, contenente tutti gli elementi fondamentali della preghiera della paura quale viene effettuata in un momento in cui non è in corso il combattimento; esso è relativo alla spedizione di Dhâtu r-Riqâ‘, uno degli episodi in cui si riporta con più testimonianze l’esempio profetico di una tale salât.
Nel cap. 2 si riporta l’opinione di Ibn ‘Umar e di Mugiâhid, come anche un hadith del Profeta, nel quale si afferma chiaramente che quando si è nello scontro o molto vicini ad esso, si fa la preghiera a cenni, il cavaliere sulla sua cavalcatura e il fante a piedi. Nel cap. 3 Ibn ‘Abbâs descrive la preghiera della paura effettuata fuori dal combattimento con i nemici nella direzione della qibla. La differenza rispetto al hadith riportato da Ibn ‘Umar nel cap. 1 è che qui i soldati sono tutti palesemente in preghiera, tanto quelli che seguono il Profeta quanto quelli che stanno di guardia, e che tutti pronunciano il takbîr iniziale. Nel cap. 4 si affronta la questione della preghiera da effettuare durante gli scontri e le tensioni che hanno luogo nella guerra attorno alle fortezze, e in generale quando la battaglia è talmente violenta che il combattente non riesce in nessun modo a pregare. Nei due esempi menzionati infatti (quello della battaglia nel Fossato nel hd. 945, e quello della presa di Tustar nell’introduzione), rispettivamente il Profeta stesso e Abû Mûsâ fanno la preghiera dopo il tempo suo proprio; nel commento al capitolo si parla delle varie implicazioni, anche di ordine dottrinale e simbolico, che si deducono dagli episodi menzionati. Nel cap. 5 si considera un altro frangente in cui ci si può frequentemente venire a trovare quando si è in guerra, quello cioè dell’inseguimento: come saranno la preghiera effettuata degli inseguitori, e quella degli inseguiti? Vengono riportati gli esempi della preghiera di Shurahbil (il quale, essendo il suo distaccamento inseguito, diede ordine di pregare sulle cavalcature), e della preghiera dei credenti cui il Profeta aveva ordinato di precipitarsi dai Banû Qurayza (i quali venivano così ad esser perseguiti e a dover esser raggiunti nel più breve tempo possibile, di modo che tale azione veniva ad essere analoga ad un ‘inseguimento’): alcuni dei combattenti, ai quali il Profeta aveva detto di non pregare l’‘asr se non quando fossero giunti dai Banû Qurayza, pregarono in effetti solo quando furono arrivati, mentre altri pregarono durante il viaggio (presumibilmente sulle cavalcature), ed infine il Profeta non biasimò nessuno di due gruppi.
Nel cap. 6 infine richiama con il hd. 947 la presa di Khaybar, ed evoca un assalto che ebbe luogo ai primi chiarori dell’alba dopo la preghiera (effettuata quindi prima dei combattimenti), ed in cui viene pronunciato il takbîr (e cioè le parole Allahu akbar, ‘Allah è più Grande’), ad indicare che scopo della Guerra santa è esaltare la Grandezza divina. Si deve notare come questo Libro 12 può esser letto come un testo in cui si studia l’aspetto spirituale dell’‘arte militare’, e dunque le modalità in cui mettere in atto il collegamento col Principio nei vari momenti in cui ci si può trovare nella guerra (dai momenti di tensione che non sfociano in uno scontro al momento dell’infuriare della lotta, dall’inseguimento alle battaglie attorno alle piazzeforti, dagli assalti alle prime luci dell’alba a quando la concentrazione nel fatto d’arme è talmente prevalente da impedire l’azione rituale che non sia … quella stessa implicita nell’impegno bellico). Il Libro, iniziato con un accenno (coranico) alla paura, si chiude con … un sorriso (e cioè con l’espressione fa tabassama, “e sorrise”) e con la menzione della liberazione di Safiyya, che era stata fatta schiava in seguito alla presa di Khaybar, e del suo matrimonio con il Profeta, vera e propria ierogamia che conclude la Guerra santa.
INDICE GENERALE - Libro undicesimo: Della preghiera del Venerdì. Introduzione al Libro undicesimo (seguono 39 capitoli riferiti al Libro XI). Libro dodicesimo: Della paura. Introduzione al Libro dodicesimo (seguono 6 capitoli riferiti al Libro XII). Indice tematico. Indice dei versetti coranici. Indice degli hadith tratti dal Sahîh di Al-Bukhârî non facenti parte ecc... Indice degli hadith tratti dal Sahîh di Muslim. Indice delle citazioni dalle Futûhât di Ibn ‘Arabî. Indice generale.